Medici in Tv

Le serie tv ambientate in ospedale: chi di noi non ha la sua preferita? In quest’articolo una carrellata delle più famose, con analisi e riflessioni scritte da una giornalista che se ne intende. In tutti i sensi.

Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Scrivo di medicina da una vita, eppure con medici e ospedali non ho hai avuto un rapporto facile. E allora, come si spiega la mia dipendenza per le fiction di ambiente medico? Mi basta vedere un camice in televisione e non resisto: “temo” di aver guardato anche alcune puntate de Il medico in famiglia, e ovviamente intere stagioni di Incantesimo, il cui rapporto con la medicina reale è pari a quello di Peppa Pig con l’allevamento di suini. Però la mia passione sono le serie americane, come conferma il fatto che mi sono persa le ultime produzioni italiane, anche quelle di qualità come DOC con Luca Argentero.

Freddie Highmore, candidato a un Golden Globe per la sua recitazione di medico autistico

 Anche perché, bisogna dirlo, i medical drama spuntano come funghi, mettendo in difficoltà chi come me cerca di seguirli tutti: c’è The Good Doctor con il bravo chirurgo autistico, e The resident che è quasi un giallo, ma anche Chicago Med, e come perdere New Amsterdam e quello slogan – “come posso aiutare?” -che dovrebbe essere alla base di tutta la sanita pubblica?

Inevitabile far confusione: ci si dimentica cosa è successo a chi, o si immaginano intrecci trasversali tra protagonisti di serie diverse. Anche perché, diciamocelo, alcuni temi sono ricorrenti; tra i protagonisti abbondano i primari carrieristi, e i medici generosi ma incoscienti che trasgrediscono qualsiasi protocollo per il bene dei loro assistiti.  I quali pure rientrano in categorie specifiche, per cui con un po’ di esperienza non è difficile capire quali casi finiranno bene e quali invece preludono al disastro. Eventi non necessariamente collegati alla gravità della patologia, perché come sappiamo nelle serie mediche – ma qualche volta anche nella vita reale – si può morire per un singhiozzo (cit.) ma anche sopravvivere ad un trapianto multiorgano.

 E poi, come se non bastasse ci sono le repliche: ci sono stagioni di Greys Anatomy – o di Private Practice, forse le mie due serie preferite – che conosco a memoria, mi basta vedere una scena per sapere cosa mi aspetta, ma nonostante questo, o proprio per questo, trovo irresistibili.

In realtà, il legame tra medicina e fiction è solido e molto più antico della televisione: la narrativa affronta da sempre il tema della malattia, reale o metaforica, e la storia della letteratura è piena di laureati in medicina, come Anton Cechov, Arthur Schnitzler, Louis Ferdinand Celine, Joseph Cronin, Sir Arthur Conan Doyle e William Somerset Maugham, per citare solo alcuni dei più noti.

Oggi spesso ad affrontare i temi più complessi sono serie di qualità come House MD. Forse una delle migliori per la bravura del protagonista – che nella realtà è inglese, e si vede – e per l’interesse dei casi presentati. Anche se nella realtà avrei ben poca simpatia per un medico che ti salva la vita ignorandoti – “Preferisce un medico che le tiene la mano mentre lei muore, o uno che la ignora mentre cerca di guarirla?”- e mette al primo posto la diagnosi anche quando ha poco a che vedere con la qualità di vita del paziente.

E chi non ha mai seguito neppure un episodio del magnetico Dr. House, alias Hugh Laurie?

Ma le serie, anche le migliori, si concedono parecchie licenze: anche l’autonomia di cui gode il protagonista rispetto alle regole dell’ospedale, e a volte del buon senso, più che alla realtà risponde al cliché narrativo dell’eroe pronto a tutto per combattere il male, identificato qui con l’agente patogeno e non con la sofferenza che affligge il paziente, e che non sempre, infatti, viene debellata.

Richard Chamberlain

Però il tema è interessante, tanto che anni fa ho tenuto una lezione che analizzava i cambiamenti della medicina – e della relazione medico paziente – seguendo l’evoluzione delle serie mediche. A partire dall’atteggiamento paternalistico dei primi medici in Tv, come Il dottor Kildare interpretato da Richard Chamberlain negli anni ’60 o Marcus Welby, un successo della tv americana degli anni ’70 che affrontava anche temi delicati come lo stupro, o la dipendenza da psicofarmaci, con un approccio così amichevole ed empatico che le associazioni mediche americane protestarono perché la serie aumentava le aspettative dei pazienti.  Nel nostro paese l’antenato delle fiction mediche è indubbiamente La Cittadella di Anton Giulio Majano, tratto dal romanzo omonimo del medico scozzese Cronin e interpretato da Alberto Lupo, una serie datata ma che anticipa molti dei temi della migliore fiction medica. Mentre nelle produzioni italiane più recenti spesso l’immagine fornita è quella vagamente folcloristica di una sanità fatta di “pastette” tra primari, di infermieri svogliati o dal cuore d’oro, e della frustrazione di chi lavora senza avere né i riconoscimenti né gli strumenti di cui avrebbe bisogno e diritto.

Alberto Lupo ne “La cittadella”(sceneggiato Rai del 1964)

La vera rivoluzione arriva negli anni ’90 con ER- Emergency Room, sceneggiato dall’autore di best-seller Michael Chrichton: per la prima volta un telefilm assume la struttura oggi familiare, con diverse storie che procedono in parallelo a ritmo serrato, ma soprattutto le storie mediche smettono di essere necessariamente “a lieto fine”. A fare da filo conduttore alla narrazione è l’emergenza, in senso ospedaliero ma anche esistenziale: vediamo pazienti che “non ce la fanno” ma anche medici in crisi, malati, in difficoltà. E in poco tempo il modello si afferma con un proliferare di serie, da Chicago Hope alla bostoniana A cuore aperto/St Elsewhere(Il nome originale, una sorta di “San Vattelappesca”, fa riferimento al termine gergale con cui i medici americani definiscono gli ospedali che accettano pazienti rifiutati da strutture più prestigiose). E l’elenco potrebbe continuare, ma è il caso di citare almeno due serie memorabili come Strong medicine/Il coraggio delle donne, ideata da Whoopi Goldberg, che rappresenta un interessante tentativo di abbinare fiction e divulgazione, e Nip&Tuck, che descrive senza risparmiare dettagli morbosi il lavoro e le malefatte di una coppia di fascinosi chirurghi estetici di Miami. Il dottor Kildare è ormai lontano anni luce, e oggi i medici delle fiction devono fare i conti, come è giusto che sia, con le scelte etiche, religiose o semplicemente personali dei pazienti. Mentre le trame seguono o a volte anticipano l’evoluzione della società -pensiamo solo a come Grey’s Anatomy ha contribuito a sdoganare l’omosessualità – e gli interrogativi proposti dalla medicina “di frontiera”, dall’eutanasia ai trapianti da donatori viventi. Come resistere a un simile intreccio di suspense, scienza e drammi esistenziali? Io non ci riesco proprio, e voi?

Patrick Dempsey e Ellen Pompeo, indiscussi protagonisti di Grey’s Anatomy

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