Da un documentario Rai del 1957 il ricordo di un viaggio avventuroso sul Po intrapreso ventenne assieme al papà, lo zio e un gruppetto di amici
Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista
Nel 1957, per inciso il mio anno di nascita, Mario Soldati realizzò il primo documentario ‘enogastronomico’ della neonata RAI: Viaggio nella valle del Po.

Tempo fa RAI Storia ne ha riproposto alcuni spezzoni e mi sono ricordato che – all’incirca ventenne – l’ho percorso alcune volte in barca, il Po. Da Pavia fino all’Adriatico.
Era cominciato tutto per scherzo. Mio papà ci andava spesso al fiume e io gli andavo sempre dietro, fin da piccolissimo; era anche l’unico modo di stare con lui, perché non c’era domenica che non andasse a pesca o a caccia.

Con suo fratello e un gruppetto di amici spesso ci trovavamo a mangiare i pesciolini e le rane fritte in qualche bettola fatta di assi nella golena (sempre casupole improvvisate e provvisorie, pronte ad essere sgombrate alla prima piena) e un giorno – non mi pare avessero bevuto più del solito – balenò l’idea dell’Avventura.

L’idea era di scendere il corso del Po in barca, prendendolo dal Ticino appena prima del ponte della Becca e navigare fino al mare. Con calma, con molta calma, per godersi il paesaggio e soprattutto pescare.

L’amico architetto si procurò all’Istituto Geografico Militare le cartine del tragitto, ci istruì sulle poche regole di navigazione fluviale, tipo: “La mano da tenere è la destra; nell’incontro tra due natanti in passi stretti, ha la precedenza quello con corrente in poppa…”, individuò i punti di rifornimento del carburante e calcolò a spanne i tempi.

I mezzi erano limitati, ma più che sufficienti: mio papà con una barca di alluminio di quattro metri e motore Selva da 15 CV. Lo zio con un mini-motoscafo a quattro posti in vetroresina (l’unico ad avere sedili imbottiti: fatto non banale, come scoprii), spinto da un Volvo Penta da 20 cavalli e un piccolo gommone Zodiac, con un vigoroso Johnson da 40 cavalli. In totale 6 persone, 4 tende canadesi, sacchi a pelo, fornellini e lampade a gas, pentolame e qualche scatoletta, ma soprattutto canne da pesca, esche e guadini per quella che si prospettava come una fosforica dieta a base di pesce freschissimo.
Il piano era di percorrere la distanza da Pavia a Gorino, paesino nel sud del delta del Po con una lingua di terra protesa verso il mare (approdo scelto perché il parroco era un parente e ci avrebbe ospitato in canonica) in tre giorni scarsi.
Il ritorno, impensabile da farsi navigando controcorrente, era organizzato in modo che le mogli dei Comandanti, con le auto (una con carrello) arrivassero a Gorino il terzo o il quarto giorno per caricare barche ed equipaggi e far ritorno a Milano: in realtà la barca di mio papà si caricava agevolmente sul tetto della Fiat 131 e il gommone sgonfio nel bagagliaio di una station wagon, ma il piccolo motoscafo doveva essere carrellato per forza.
Fu così che un giorno d’estate, all’alba, salpammo da Pavia con le nostre tre caravelle verso l’ignoto.
Il Po è un fiume bellissimo e attraversa paesaggi incantevoli se visti dall’acqua, anche se dopo un po’ diventa quasi straniante, privo com’è di riferimenti se non la barriera degli alberi e gli argini: potresti essere su un Rio delle Amazzoni in scala ridotta, per la sensazione che dà.
Sulle rive, rari cartelli indicano dove percorrere il fiume in sicurezza e rimandano da un lato all’altro del corso, dove c’è più fondale, ma il letto del fiume varia continuamente e nonostante il nostro pescaggio ridottissimo ci si poteva trovare di colpo su una secca. L’unico rischio per noi era di strisciare il fondo con il piede dell’elica del fuoribordo. Ho foto di noi ritti in piedi nel bel mezzo del fiume mentre spingiamo la barca fuori da un banco di sabbia e fa impressione vedere il corso del fiume e la sua corrente tutta attorno.
C’era poi un punto di dislivello da superare grazie a un manufatto (c’è ancora, anzi, l’impianto è stato da poco ristrutturato), costruito secondo i dettami di Leonardo: un sistema di chiuse a ‘porte vinciane’.

E’ in pratica una vasca di cemento lunga un centinaio di metri, lungo il corso del fiume, a Isola Serafini, vicino a Cremona, dotata di grandi porte, o chiuse. Le chiuse si aprono con la sola forza dell’acqua che defluisce dal punto più alto durante la bassa marea e al contrario si chiudono con l’alta, permettendo di superare un dislivello che arriva fino a 13 metri. Un’esperienza davvero unica, stare lì dentro a bordo delle nostre barche ad aspettare il via libera mentre si galleggia e l’acqua scende di livello velocemente.
Ora, io non so quali orari osservi attualmente la Conca di Isola Serafini, immagino si debba prenotare il passaggio per tempo. Allora, molto più semplicemente, ci si fermava ad aspettare il manovratore delle chiuse, che quel giorno evidentemente si era attardato a pranzo: lo aspettammo per cinque ore.
Nel frattempo, per ingannare l’attesa, facemmo la conta delle prede pescate fin lì, per organizzare il primo lauto pasto dopo aver dato fondo alla scorta di panini della partenza. Zero. A parte qualche minuscolo esemplare allamato e ributtato in acqua subito, avevamo pescato niente.
La farò breve per chiudere il capitolo “vivremo del nostro pescato” e stendere un velo pietoso sulla faccenda: da lì in avanti ci saremmo nutriti di scatolette di tonno (sempre pesce è…), carne in scatola, crackers, latte condensato e qualche brioche. Il fornello tornò utile solo per il caffè.
Passato il nodo delle chiuse finalmente ci godemmo uno spettacolare tramonto e sbarcammo su una lunga lingua di sabbia per montare l’accampamento, lontano dalle piante e dalle erbe per evitare le zanzare.
Mentre mio padre, da riva, si ostinava a mulinare la canna e a issare una rete quadrata per non arrendersi alla mala sorte o all’esca sbagliata, tirammo su le tende e accendemmo un bel fuoco, non certo per cucinare qualcosa, ma perché fa avventura e western e poi l’aria sul fiume la sera, si sa, si fa fresca.

Stanchi e cotti dal sole, eravamo pronti a dormire nei sacchi a pelo.
Mi era sfuggito però un dettaglio: mio papà era un forte russatore. Un grande russatore. Non sembrava neanche un essere umano, e mi sovvenne che era il motivo per cui da molti anni la Vanda dormiva in un’altra stanza. Me ne ero scordato. Allora non c’erano gli smartphone altrimenti avrei registrato un file audio da allegare qui sotto, perché a parole non riesco a descriverlo. Però ricordo le urla e le imprecazioni dalle altre tende, che rompevano il silenzio incantato di quella notte di stelle.

Ricordo solo che la notte seguente il nostro accampamento, visto da fuori, poteva apparire molto bizzarro: tre tende vicinissime attorno a un fuoco e una minuscola canadese da due posti a più di trecento metri di distanza, con un solo occupante: mio papà. Io mi arrangiai nella tenda dell’architetto. Mio padre fece l’offeso per una mezz’ora buona, prima di iniziare il concerto.
Sul fiume si fanno pochi incontri, ma quasi tutti degni di nota. Un giorno sorpassammo una grande zattera costruita proprio come nelle barzellette dei naufraghi, con tronchi di legno tenuti assieme da corde, a bordo una decina di persone, con quattro ragazzini che pagaiavano placidamente seduti agli angoli con le gambe penzoloni nell’acqua: era un gruppo di giovanissimi scout di Cremona, evidentemente figli di genitori non ansiosi. Ogni tanto un motoscafo da corsa che testava i motori si sentiva arrivare da lontano rombando e ci sorpassava velocissimo (la gara di velocità Pavia-Venezia è una classica della motonautica: quest’anno la 70a edizione, prevista il 9 ottobre, è stata annullata a causa delle condizioni idriche di Ticino e Po); sulla riva casupole improvvisate, probabilmente di cittadini che lì si ritagliano una specie di eremo fuori dal mondo, pescatori professionisti e dilettanti, cacciatori e bird watcher interessati – ognuno a modo suo – alla moltitudine di uccelli che si levavano davanti alle barche.
Fatto sta che senza incidenti di rilievo, a parte la rottura di tre o quattro parastrappi dell’elica a causa di rami e alghe attorcigliate, qualche metro fatto a spinta sulle secche, decine di cucchiaini da spinning (sono esche artificiali che simulano un pesciolino che guizza) persi sul fondo, qualche ora impiegata a riavviare motori ingolfati e sostituire candele sporche, percorremmo tutto il fiume come da programma, fermandoci a fare rifornimento meno di frequente del previsto, dato che il consumo di carburante, viaggiando in favore di corrente, fu minimo.
I trabucchi e gli impianti di pesca si fecero più numerosi, e il fiume si spezzò in un dedalo di rami d’acqua: con l’aiuto delle carte, ma soprattutto con l’indicazione dei pescatori, nel tardo pomeriggio del terzo giorno (come sono biblico…), arrivammo finalmente nel ramo del Po di Gorino e in vista del mare: quarant’anni fa la risalita di acqua salata – oggi tragica realtà del delta del Po – era un fatto raro e il fiume spingeva l’acqua dolce per centinaia di metri nell’Adriatico.
Gorino era un piccolo paese di pescatori, sembrava di essere tornati nel tempo a un film degli anni ’50. Accostati a un pontile mandammo a chiamare don Loris e le donne-autiste e dopo qualche ora, sistemate le barche, eravamo tutti con le gambe sotto al tavolo all’unico ristorante di Gorino, davanti a enormi piatti di pesce.
Inutile dire che ci divertimmo un mondo; l’anno seguente ripetemmo il viaggio sperando potesse diventare un nostro appuntamento fisso. Io partecipai ancora una terza volta, poi per un motivo o per l’altro non si fece più.
Mio papà sempre esiliato, di notte, con la sua tenda canadese che era stata soprannominata “cà del frecass” (casa del rumore, in milanese).
Se vi capita, quel ristorante vicino alla chiesa di Gorino c’è ancora (si chiama Uspa) e si mangia sempre pesce freschissimo.
