Già, io che odio fare le scalette di ciò che devo scrivere (anche quando è necessario per l’indice di un libro o per un articolo), in questo caso- l’argomento mi ha sempre coinvolto tanto, incredibilmente fin da bambina quando, a soli 7 anni, realizzai che anche la mia vita aveva una data di scadenza e pertanto mi conveniva vivere il più intensamente possibile ogni momento- (facile a pensare, più che dirsi naturalmente), in questo caso dicevo, mi ero stranamente preparata a buttare ciò che intendevo dire. Punto per punto.
Fu allora che lessi sulla pagina Facebook del nostro Andrea Tomasini una pagina che, partendo dalla sua vita quotidiana, diceva tutto sul tempo. Dopo avergli chiesto il permesso, ho pensato quindi di trascrivere per l’Editoriale del numero della rivista che chiude la stagione estiva le sue parole. Eccole:
I dispositivi e il tempo dell’anziana genitrice
Da un po’ l’anziana genitrice è concentrata – comprensibilmente, forse- sulla misurazione del tempo che scorre nel suo quotidiano. Ma non riesce a leggere il quadrante dell’orologio e per questo non lo indossa più al polso ed è la ragione per cui chiede spesso che ora è.

Un tempo l’ora esatta era scandita fuori di casa da un tempo collettivo, cadenzato delle campane del campanile o da quelle della torre del municipio, che riferendo dello stesso orario del giorno e della notte, suggerivano tempi simbolicamente differenti. In giro per la città del traffico e del commercio c’erano gli orologi pubblici che dichiaravano l’ora cui basarsi per ritmi e incombenze basate su scambi non solo simbolici ma anche pratici. Qua intorno non ci son campane così prossime da esser sentite. L’anziana genitrice ormai fa fatica anche a distinguere i numeri, e quindi l’ora esatta sullo schermo del cellulare – dispositivo che comunque non ha mai voluto imparare a usare. “Si, ha squillato, e allora? Se vogliono mi richiamano”, diceva quando le facevo notare anni addietro che non era riuscita a rispondere e che forse accettare di imparare come si fa avrebbe agevolato la vita e le relazioni. Ma questo è il passato. Lo smartphone da almeno un anno è diventato un suo “nuovo” oggetto feticcio e ora lo vuole sempre accanto, notte e giorno. L’applicazione killer del suo smartphone ormai coincide con il fare in modo tale da illuminare lo schermo -sia con il sole, sia con la luna-: così va persuasa di monitorare lo stato della sua cecità dovuta al glaucoma e al suo pregresso autolesionistico comportamento. Se vede o comunque percepisce il chiarore, riesce a uscire dalla sua oscurità trovando momentanea pace. Il fatto è che a volte, quando lo accende, tiene rivolto a sé il dorso, non percepisce luce e ne deriva un tonfo nel percepito profondo buio dovuto solo al verso con cui impugna il telefono e non al nervo pallido o al lavorio oscurante della pressione oculare. Qualche mese fa accendeva e scorgeva l’ora, ora s’accontenta del bagliore. Comunque, è un sistema di misurazione di sé e di se stessa in relazione al suo mondo.
Altro strumento per lei essenziale e vitale è la radio. Questo però da sempre. Ragioni antiche. Maturate da ragazza, forse anche da bambina. Durante la guerra. Suo padre era imbarcato nei sommergibili. La radio era la voce che giungeva di lontano. Suoni e parole. Le faceva compagnia, perché colma gli spazi vuoti fatti di silenzio. Esiste un punto sulla linea della sintonia ove collocarsi in ascolto – che non è sentire, ma prestare attenzione. In passato non si faceva altro, seduti attorno alla grande radio, quando parla. Poi la radio diventa portatile e l’anziana genitrice la conduceva con sé da una stanza all’altra. Una presenza fissa e necessaria – di suoni e parole fanno compagnia mentre si fa altro. Un sottofondo necessario – come la luce, il sole che entra dalle finestre con le serrande alzate, le lampadine che contrastano il buio. La radio è sempre accesa, ma l’emittente sfugge alla sintonia, per cui non so quante volte la ricolloco sulla stazione desiderata. Lo stesso accade con le lampadine. Dorme con la luce – da sempre. Complice un racconto di sommergibilisti – colleghi di mio nonno che nella Palermo dell’immediato dopoguerra, invitati a tavola per cena, dopo raccontavano e ricordavano di commilitoni morti dentro al mezzo piombato nell’abisso – “quando poi si spengono le luci a bordo, è il segno che il tempo è finito e attendi la conclusione”. Da quella sera sempre la luce accesa, la notte. Il timore del black-out elettrico è sempre stato compensato a casa da una fornitura abbondante di fiammiferi e candele per “far luce, nel caso”
Ha sempre la radio accanto, che tiene comunque accesa, ma che poi a seconda dei momenti silenzia. Non usa il tasto on-off. Agisce sul volume – lo azzera quando ciò che sente le dà noia, lo alza riconferendo il diritto di parola alla trasmissione in onda in quel momento se quello che ascolta è di suo gradimento. In verità ormai tende a fare in modo simile anche con gli esseri umani, cambiando bruscamente discorso quando il dialogo prende piega non gradita.
La radio da oltre un anno assolve anche a un’altra funzione: la utilizza per capire, misurare e collocarsi nel tempo che passa: non con il solo il segnale orario, bensì avvalendosi dell’accurata conoscenza del palinsesto di RadioUno e RadioDue che le consente di orientarsi, Legge nelle trasmissioni radiofoniche il tempo in cui vive e ci si colloca. Curioso, ma la ancorano al quotidiano, scandendo le fasi del giorno.
La tivù la tiene spenta, ormai. Anzi, il fatto che strutturalmente per fruirla la si debba anche guardare le marca la gravosa condizione di non vedente – che poi è stata per tutta la vita la sua grande paura. Curiosamente, gli audiolibri non li ha mai sopportati perché marcano il fatto dell’ascolto che non è lettura – leggere è possibile se vedi.
Un nuovo dispositivo s’è aggiunto, recentemente, ai misuratori di tempo – sebbene abbia altra funzione e si collochi nella logica dei segmenti anziché nel flusso continuo delle cose: il contaminuti.
Ora dentro casa, quando la si aiuta a spostarsi da una stanza all’altra, oltre a cellulare e radio vuole aver con sé il timer che cucinando si utilizza per definire la durata di una cottura. Per misurare il tempo che passa, il contaminuti va a ritroso. Se son 13 i minuti di cottura dei rigatoni, la tacca di indicazione la collochi in avanti sino a dove è segnato 13 e la molla, opportunamente tarata, s’incarica di far tornare indietro la tacca fino allo zero, tornando all’inizio.
Il timer è un dispositivo che consente di temporizzare un’azione mediante il conto alla rovescia. L’anziana genitrice ne fa un uso bizzarro: lo impiega in concomitanza con attività necessarie che deve compiere le pesano. Ad esempio quando deve fare l’aerosol. Ora che ne deve fare ben 4 al giorno, è tutto un programma. Hai voglia a dirle che la somministrazione dei farmaci nebulizzati non è scandita dal timer, e che si non conclude con il segnale sonoro del dispositivo bensì con l’esaurimento del liquido nell’ampolla dell’apparecchio dell’aerosol…
“Mettilo a mezz’ora, a me comunque mi aiuta”.
In contemporanea, vicino al timer azionato tiene la radio accesa, il cellulare accanto alla radio sul tavolo e comunque, con frequenza da goccia che cade, chiede che ora è.
Vuole il timer con sé anche quando va a letto nel pomeriggio, dopo pranzo – cosa che deve fare, ma cui oppone insofferenza simile a quella con cui affronta l’aerosol. Accanto al cuscino chiede la radio, sotto al cuscino dalla parte in cui è voltata domanda se è stato posizionato il cellulare e accanto anche il timer contaminuti, che però stavolta non chiede di programmare perché sa che la durata del riposo prescritto eccede le potenzialità di programmazione del timer, che sta là simbolicamente, come simbolo della sua protesta contro il necessario, per immaginare di poter dire “io” anche nel tempo che le scorre via.
Il tempo “usato” per fare cose controvoglia è come se lo vedesse sottratto, rubato al resto del suo tempo. Mi son persuaso che il motivo per cui vuole il timer è connesso al funzionamento di questo dispositivo – semplicemente perché realizza un conto alla rovescia.
E’ come se volesse esser rimborsata del tempo speso nel fare una cosa che detesta. Il contaminuti torna indietro e si ricongiunge con l’inizio- una restituzione dei tredici minuti trascorsi se a “tredici” il termine era stato puntato. E come leggere un testo, un libro dalla fine risalendo dall’ultima parola dell’ultima pagina in basso a destra e procedere verso sinistra, risalendo “La freccia del tempo” – “.idrat opport iamro odnauq o otserp opport o – otailgabs otnemom len otavairra onos ehc ,ortned oi E”.
Occorre abilità per riuscire, carattere per abituarsi, voglia di comprendere. L’enjeux è pur sempre la percepita urgenza del tempo, desiderio di ottenere compensazione per qualcosa che sfugge, che manca: desiderio è la mancanza dei “sidera”: il cielo è coperto e senza le stelle visibili non si può tracciare la rotta, se si vuol continuare a navigare…

Ecco. Ora è evidente che nessuna scaletta avrebbe fatto sì che io potessi dire qualcosa che uguagliasse la scrittura e i contenuti del nostro Andrea Tomasini. Pertanto, ancora grazie e buona lettura a tutti!
Minnie Luongo