Saper raccontare in maniera seria ed esilarante allo stesso tempo come “si è catturati dal sistema scolastico” due volte (la prima all’asilo e poi dall’altra parte, come docente) richiede una scrittura unica e raffinata.
Di Federico Maderno – scrittore
Sono stato catturato, una prima volta, la mattina di un giorno di novembre del 1967. Lo ricordo benissimo, anche se a quel tempo viaggiavo con i pantaloni di velluto alla zuava ed il berretto di panno stile KEP da cavallerizzo, completo di paraorecchie e bottone rivestito di stoffa fissato alla sommità. Avevo cinque anni, uno spirito libero e una rara propensione per fare diventare un trastullo tutto quello che mi passava per le mani. Il tempo avrebbe dovuto fermarsi, e sarei rimasto il più gioioso tra gli ignoranti.

A quel tempo, per esempio, preso dalla mania delle biglie, ci giocavo di continuo, sul pavimento del salone. Era una stanza enorme, rivestita di marmettoni fatti di una pietra scura, quasi nera, e intarsiati di venature di tutte le gradazioni del verde, che formavano geometrie imprevedibili, ardite.
Conoscevo a memoria tutta la mappatura di quelle piastrelle, ogni più bizzarro grafema. Cultore in erba di una pareidolia da mattonelle, invece di interpretare le nuvole mi ero divertito a memorizzare, tra quelle macchie casuali, tutte le similitudini possibili, a riconoscere nel guazzabuglio delle striature ogni schema significativo, la più piccola somiglianza. Dalla “macchinetta del caffè, ma senza beccuccio” al temutissimo “teschio di cane magrissimo” che rimaneva in un angolo e sopra il quale neppure mi azzardavo ad appoggiare il dito, per far avanzare le piccole sfere di vetro.
Quel pavimento di marmo era oggettivamente stupendo; naturalmente, lo era quando era pulito e con la Emulsio tirata a specchio. Mia Madre ci dedicava parecchie ore ogni giorno (l’appartamento aveva una superficie di centotrenta metri quadrati e il maledetto pavimento nero era dappertutto, con l’esclusione del bagno e della cucina).
Io, mi limitavo a farci rotolare le biglie; sentivo che era netto come un lenzuolo e profumato di cera come un’arnia. Così, mi ci crogiolavo sopra alla maniera di una biscia su una roccia assolata.
Inevitabilmente, dopo ogni interminabile partita, i marmettoni erano trasformati in un’infinita raccolta di impronte digitali. Si guardava in controluce e sembrava di essere nell’archivio della questura; solo che i dermatoglifi rimandavano ad un unico colpevole e non era necessario cercarlo. Mamma alzava gli occhi al cielo, ma io la fulminavo con la mia infallibile espressione da vitello al mattatoio e lei metteva in conto l’ennesimo passaggio con i feltri della lucidatrice (SanGiorgio, ce l’ho ancora adesso, perché la roba costruita una volta… eccetera, eccetera…).
Così, nell’illusoria percezione di un tempo sospeso, trascorrevano i miei giorni da selvaggio felice e tutto sembrava immutabile.
Ma qualcosa stava per cambiare.
– Vieni, ché andiamo a giocare con gli altri bambini – mi aveva detto la Mamma quella mattina di novembre. Sembrava tranquilla. Non credo che stesse covando un pluriennale rancore per l’untuosità dei miei polpastrelli. Non avrebbe avuto senso: me li aveva fatti lei e dunque non poteva sottrarsi alle sue responsabilità. In quei giorni, mi convinsi per qualche tempo che non si trovassero più, sul mercato, le spazzole di feltro della SanGiorgio. Nell’attesa di un incremento di produzione, venivo allontanato dal problema.
“Ma quali bambini?” avevo pensato io, che per trascorrere delle ore spensierate non avevo ancora bisogno di compagnia. Bastavo a me stesso come uno stilita in meditazione alla sommità della sua colonna.
Eppure, l’avevo seguita fiducioso, fino alle vetrate di quella strana casa, dalle cui stanze provenivano le grida insensate di altri piccoli selvaggi.
Ci aveva accolto una signora che avevo giudicato anzianissima, e aveva, probabilmente, parecchi anni meno di quanti io ne abbia adesso (dunque, si trattava di una bambina).
Avevo notato, da subito, una qualche complicità tra le due donne. Si scambiavano sorrisi eccessivi e frasi troppo brevi.
Ero stato attratto, per qualche minuto, dalla giocosità chiassosa dei miei coetanei; e quando mi ero voltato, la Mamma era sparita (si trattò certamente del primo ed ultimo dei suoi tradimenti).
Non lo sapevo ancora, ma ero stato catturato dal sistema scolastico.
Alla sera, Papà mi aveva chiesto come fosse andato il mio primo giorno da studente. Avevo piazzato le mani sui fianchi, esageratamente (avevo appena scoperto che tale postura conferisce una profonda autorevolezza), e avevo commentato, storcendo un po’ la bocca in una smorfia di scetticismo:
– Insomma… insomma… Non male, ma non credo che tale ambiente sia consono alle mie aspirazioni, così che difficilmente costituirà un riferimento auspicabile per il mio futuro sociale o culturale (naturalmente enunciai il concetto con un eloquio assai più adeguato alla mia giovane età, ma la sostanza era quella).
Fu un errore gravissimo: non ne sarei più uscito.
E non mi riferisco alla semplice carriera da studente, iniziata quel primo giorno all’asilo e proseguita fino alla laurea; quanto, piuttosto, all’insana idea che nel sistema si potesse giocare anche dall’altra parte della barricata.
Per quello, tuttavia, era necessaria un’altra trappola ben congegnata.
Era l’ultimo giorno di servizio militare. Mi ero appena congedato come Sottotenente di complemento e tornavo a casa ancora in divisa, ma con i borsoni pieni di tutto quello che davvero non avrei più usato. Lo ricordo benissimo, proprio perché non portavo più da un pezzo i pantaloni alla zuava e sul mio berretto campeggiava una barretta dorata da ufficiale. Telefonai dal binario numero 1 della stazione di La Spezia (erano ancora gli anni dei telefoni che facevano “glonk” quando ingurgitavano i gettoni con una fame da suonatore di banda) ed era quasi un “butta la pasta ché arrivo”.
– Tra due ore sono a casa – dissi a mia Madre. – Ora mi prendo un mese di meritato riposo e guai a chi si permette di…
– Ti hanno cercato da una scuola…
– Come: “da una scuola”? – Evidentemente, un po’ di sano sospetto era rimasto.
– Sì, è per una supplenza.
– Ah… E da quando inizierebbe, questa supplenza?
– Da domani.
– Mh… Funziona sempre quella lucidatrice SanGiorgio?
– Ma cosa dici?!
– Lascia perdere, Mamma. Appena arrivo, telefono io alla segreteria.
È stata la seconda maledetta trappola. Trent’anni anni di docenza, con qualche discontinuità e l’inevitabile iniziale periodo di precariato.
Ho i capelli bianchi (quei pochi che sono rimasti). Ho visto la scuola italiana cambiare, e non in meglio.
L’ho vista trasformarsi da Ente di formazione culturale al surrogato di tutto quello che, nella Società, non esiste più o non garantisce più di funzionare; la famiglia, prima di ogni cosa.
L’ho vista, soprattutto, svuotata dei contenuti. Del resto, se osi parlare di “programmi” vieni tacciato di bieco nozionismo e lapidato in Sala Consiglio. L’ho vista riempita di tutto quello che non si riesce a veicolare altrimenti.
Perché la scuola deve occuparsi di ogni cosa; nulla le è estraneo, indifferente, da nulla può chiamarsi fuori. Non c’è emergenza sociale per la quale non venga chiesto il suo contributo.
Bullismo, ludopatie, dipendenze da sostanze nocive e da telefonini, violenza, disordini alimentari, razzismo, depressione, disparità di genere… Non c’è problema sociale che non sia destinato a transitare per le aule scolastiche, nel tentativo di raddrizzare una situazione che si aggrava. I genitori, a ben guardare, possono perfino provare a non occuparsi dei figli, e rischiano ben poco. I Professori, no. Finiscono sui giornali, sono fatti bersaglio degli strali televisivi del sociologo di turno. E tu, prova a spiegare che in fondo ti sei preso una laurea in Ingegneria perché hai la presunzione di ficcare in quelle menti sconsiderate i principi di una materia tecnica. Non si può fare. Non c’è tempo, per simili sciocchezze. C’è l’incontro con il dietologo e poi, domani, il progetto di teatro. Mercoledì vengono gli agenti della Polizia locale a parlare di educazione stradale. Giovedì, per le classi prime e seconde, “Gli amici della canoa“ proiettano un cortometraggio su sport e salute. Il giorno dopo, per le altre tre classi, un noto ortopedico ci intrattiene su “quando lo sport può fare male”. Cerchiobottismo per adolescenti, insomma.
– A che ora, quello che fa male?
– Verso le 9.00; perché poi, alle 11.30, tutti in palestra a sentire quel tizio che parla di… di cosa parla, più?
– Mi sembra che fosse il tipo della comunità di recupero dei tossicodipendenti.
– Ma non era quello dell’associazione contro il consumo di alcool?
– Quello viene la settimana prossima, tra i volontari per la donazione di midollo osseo e una signora che parla di “ikebana e equilibrio mentale”.
– Ma non avevo piazzato la verifica di Matematica, uno di quei giorni?
– Si sposta, no?
– Ma è la terza volta che la sposto! Sta per finire il primo periodo e tra poco ci chiederanno se abbiamo un numero congruo di valutazioni.
– E tu spostala ancora; così, magari, riusciamo a far venire anche il circolo scacchistico e l’esperto di danze scozzesi.
– Quella delle danze scozzesi è una balla, dai! Te la sei inventata adesso, per rovinarmi la giornata.

– È uscita la circolare che saranno venti minuti, ti giuro… Però, ho sentito che Rossi va a chiedere se la valutazione sulle danze scozzesi può essere inserita tra i voti di disciplina, alla voce “cittadinanza e Costituzione”.
Non doveva essere questo, il finale. Lo giuro. A un certo punto, sognavo ex alunni che venivano a ringraziarmi per averli introdotti alla sublime arte del rilievo topografico. Mi illudevo.
Temo soltanto di dovermi confrontare, un giorno, col titolare di una scuola di ballo. È seduto sulla soglia della sua palestra, ad attendere inutilmente allievi che non arrivano. Mi fermo un attimo a guardarlo. Sta suonando, lamentosamente, una cornamusa scozzese e allora, improvvisamente, penso di aver riconosciuto, nelle sue sembianze smagrite, un mio antico discepolo. Sembra mio nonno, per quanto è sciupato.
Provo a scappare, ma mi ha riconosciuto anche lui e mi blocca gridandomi alle spalle.
– Si ricorda di me, Prof?
– Ah sì, certo… – Spero che nessuno ci ascolti. Gli rivolgo un saluto con un cenno della mano e tento di proseguire.
– Aspetti!
– Dimmi, caro.
– Scusi una domanda, Prof: ma con tutto il bene che GLI voglio (qualche baratro linguistico deve pur averlo aperto la didattica degli anni 2000)… Cosa c***o ci insegnavate allora, invece di farci capire qualcosa sulle derivate e gli integrali?
Vaglielo a spiegare che la verifica di matematica era andata in coda all’”Associazione per la tutela del Porro gigante di Carentan”!
No, non doveva esserci un finale così. Non per uno che ha lasciato incompiuta una meravigliosa partita a biglie.
Forse è per questo, per evitarci quell’ultimo affronto, che non ci lasciano andare in pensione. Dobbiamo morire in servizio, accasciandoci sulle cattedre, per non vedere, per non capire cosa sta accadendo nel Bel Paese. Intanto, come dice qualcuno, tolto il registro cartaceo a favore di quello elettronico, s’è fatto posto per i vasi canopi o per le urne cinerarie, da sistemare negli armadietti metallici della sala insegnanti.
