L’autrice, ripercorrendo la propria esperienza scolastica, dalle elementari alla Montessori in avanti, riesce a ricostruire i motivi della sua personale etica: nonostante le sia naturale ribellarsi all’autorità, accetta (e anzi apprezza) l’autorevolezza
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Curiosavo tra i miei ricordi di scuola, indecisa su come affrontare il tema del mese: un’esperienza troppo lontana nel tempo, troppo ricca, e poi della scuola Montessori ho già parlato nell’articolo dedicato alla maestra Carmela. Invece, proprio un dibattito su Facebook a proposito del metodo Montessori mi ha fornito uno spunto. Perché parlare di scuola significa anche parlare di ordine e disciplina, presenti nelle scuole e nella società di ieri – anche se nelle Montessori assumevano un aspetto particolare – e assai meno in quelle odierne. E mi sono trovata a ragionare sul mio personale rapporto con questi concetti. Sono una ragazzina allevata da un padre stalinista a parole, ma sufficientemente affettuoso e distratto da lasciarle fare sostanzialmente quello che volevo. E quindi cresciuta da liberale tendente all’anarchia, intollerante nei confronti delle regole, particolarmente se accompagnate da frasi come “ Sono gli ordini” oppure “Si fa così”. E sono certa che la domanda “ma PERCHE’ si fa così?“ sia riecheggiata anche nelle aule della mia scuola elementare. Eppure sono stata un’alunna abbastanza disciplinata, e poi una studentessa attenta anche se le scuole che mi accoglievano non brillavano per rigore. Ripensandoci, forse la formula magica che mi ha salvato dall’analfabetismo ruota attorno a due concetti: io mi ribello all’autorità ma accetto, anzi apprezzo l’autorevolezza. E tendo a rispettare i patti.
Ora, nella mia famiglia il patto era che gli adulti lavoravano e i piccoli andavano a scuola, e ci si aspettava che assolvessero decorosamente questo compito. In qualche modo, mi pareva che un patto ci legasse anche agli insegnanti: loro cercavano di trasmetterci le loro materie e noi dovevamo imparare. Il che non significa che fossi un’alunna modello: non ero una di quelle che disturbavano, perché mi pareva che in questo caso si sarebbe venuti meno al patto di solidarietà con i compagni interessati ad ascoltare. Ma certamente in molti casi i più affascinanti tra i libri di testo (come la mitica antologia di epica) o semplicemente la lezione dell’ora dopo mi coinvolgevano più della spiegazione dell’insegnante. Ero anche tendente alla chiacchiera, e il mio codice etico diventava più flessibile quando si trattava di confrontare una versione di latino o di greco con le compagne, o di aiutare un’amica meno portata di me alla traduzione.

Negli anni delle elementari l’elasticità prevista dal metodo Montessori ha sicuramente contribuito ad aggirare qualche scoglio. Mentre le nostre coetanee entravano a scuola irreggimentate in grembiulini d’ordinanza noi sciamavamo liberamente con vestine multicolori scelte dalle mamme. La scuola, come ho già raccontato altrove, era confortevole e stimolante. Ne sono emersa con particolari carenze? Direi di no: nonostante l’odio per le perline utilizzate per insegnarci la matematica, ho imparato a fare di conto quel tanto che bastava per affrontare i corsi successivi, e la mia proverbiale distrazione nei confronti dell’ortografia (prima di essere definitivamente risolta dai correttori automatici) è stata più che compensata dalla mia passione per la parola scritta e la lettura, coltivata attraverso la biblioteca di classe e le attività proposte.

Degli anni delle medie, trascorsi tra Roma e Firenze in un periodo particolarmente difficile della mia vita, ricordo poco se non il rapporto di affetto e stima con alcuni insegnanti che ha fatto come al solito da motore ai miei successi scolastici.
Mentre il liceo meriterebbe una storia a sé: la scarsa propensione di mio padre ad attendere in coda per l’iscrizione mi guadagnò un posto nel più improbabile liceo ginnasio di Firenze, ma anche cinque anni di divertimento in una scuola gestita in modo vagamente surreale grazie alla combinazione tra un preside mite e distratto e un vicepreside che avrebbe avuto anche l’ambizione di metterci in riga, se solo non avesse avuto troppo da fare. Il risultato, per fare solo un esempio, è che i ragazzi più grandi uscivano nell’ora di ricreazione per andare a comprare fuori la pizza, e sono abbastanza certa che non avessero nessun tipo di autorizzazione. Io non l’ho mai fatto, un po’ perché non m’interessava la pizza, un po’ perché le regole apparentemente sensate (eravamo minorenni e in caso di guai ci sarebbero andati di mezzo i nostri professori) mi risultavano più digeribili.
Lo stesso principio, insomma, per cui litigavo (erano gli anni ‘70) con gli studenti dei collettivi che tentavano di imporre scioperi ai compagni delle classi inferiori bloccando l’ingresso all’istituto. E oggi mi viene da ridere immaginando il loro imbarazzo di rivoluzionari di fronte a una quindicenne occhialuta nei cui confronti era impensabile usare la forza. Intanto io arringavo i più piccoli rassicurandoli sul fatto che, se avessero voluto scioperare andava benissimo, ma se preferivano entrare stessero tranquilli che li avrei aiutati io. La stessa logica per cui, in altra occasione, entrai in classe a riprendere i libri comunicando all’insegnante già presente (forse l’unica insegnante davvero severa che mi sia mai toccata in sorte) che avrei partecipato allo sciopero di quella mattina, condividendone gli obiettivi. Perché, ragionavo, se protesti lo fai sapere, e non ti trinceri dietro vaghe giustificazioni.
A incanalare il mio fervore arrivarono, nel 1974, i decreti delegati, che segnavano l’ingresso di genitori e insegnanti nella gestione della scuola. Inevitabilmente fui coinvolta, e da quel momento la scuola diventò un po’ più mia, rendendomi più attenta a segnalarne le magagne ma al tempo stesso più indulgente. Ma col liceo arrivò anche il grande amore, per le nuove materie che incontravo e i professori che le insegnavano. L’insegnante di scienze riuscì, grazie a un laboratorio faticosamente messo su e alla sua passione per la biologia, a risvegliare un interesse che non si è mai più spento (e sono davvero felice di aver fatto in tempo a dirle quanto le sue lezioni e quelle esercitazioni al microscopio abbiamo segnato la mia vita).
E poi c’erano il greco antico e l’incontro col professor Iginio Crisci, adorabile appassionato di studi classici in grado di compensare un’innata timidezza – che apparentemente avrebbe dovuto renderlo inadatto all’insegnamento – con la cultura e la passione per la sua materia. Devo a lui una scelta oggettivamente sbagliata, l’iscrizione alla facoltà di lettere classiche (avrei scoperto presto che di professori come lui nelle aule universitarie ce ne erano pochi). Ma anche la gioia di seguire quei Colloqui di filologia classica cui invitava, nelle aule della Facoltà di Lettere, gli studenti più attenti: e il fatto che per noi quelle lezioni oggettivamente noiose e in gran parte incomprensibili fossero un obiettivo cui mirare, è forse la risposta migliore alla domanda sul tipo di disciplina che funziona. Almeno per me, ma forse non solo: non obbedisco agli ordini ma rispondo (nei limiti del ragionevole, non ve ne approfittate) alle richieste di chi ha saputo guadagnarsi la mia stima e il mio affetto.