Le persone sono belle se oneste, cortesi, intelligenti e valide moralmente: una convinzione su cui riflettere attentamente
Di Federico Maderno – scrittore
Ah, la bellezza! Che concetto inafferrabile, sottile! Sarebbe già difficile capirci qualcosa se si avessero, per tempo, le guide più opportune, se qualcuno avesse la buona grazia di educarci quando ancora non siamo contaminati dai modelli sociali, dalle mode. Invece, fin dalla nascita, cercano di confonderci, di proporci i più mendaci tra i termini di paragone. Quando hai tre anni ti danno un foglio di carta e qualche matita colorata. Tu, che hai perfino difficoltà a tenere il lapis ben stretto tra le piccole dita, sopra quella carta tracci dei ghirigori senza senso, dei geroglifici disordinati; ammettiamolo: nemmeno riesci ad avvicinarti alla peggior produzione di Congo, lo scimpanzé pittore. Ecco, è a quel punto che iniziano le ipocrisie ingannevoli, i depistaggi estetici. Dovrebbero dirti che hai realizzato un incomprensibile sgorbio, un pasticciaccio osceno. Nemmeno ti offenderesti, perché ti manca ogni metro di paragone e una conoscenza minimale dei lemmi. Basterebbe dirtelo con voce suadente. Capiresti la tua inadeguatezza. Invece, no. Se passa un adulto nel raggio di dieci metri, sgrana gli occhi e ce n’è abbastanza per gridare al miracolo. Il foglio viene elevato in alto come un ostensorio, affinché a nessuno possa sfuggire il prodigio artistico e creativo del genio in erba. “Ma che bello! Ma che meraviglia!” esclamano i genitori. “Ma che bravo! Che precocità artistica!” risponde il coro. Si radunano capannelli di parenti osannanti, si avvertono i vicini di casa e i cugini in Argentina (la Nonna ha gli occhi lucidi, sogna già il vernissage della prima personale e si ripromette di prenotare con buon anticipo la sala espositiva). Papà, se riesce ad accaparrarsi il capolavoro, lo porta in ufficio, dove sarà conservato nel più prestigioso dei cassetti, in attesa di essere raggiunto, alcuni anni dopo, dal portacenere di creta dipinto con gli smalti (Papà, tra l’altro, non fuma). La Mamma è molto più pratica. Ha bisogno di averlo bene in vista. Se riesce (quasi sempre) a far valere il diritto di prelazione, lo espone sulla porta del frigorifero, trattenuto da una di quelle calamite già pronte fin dai giorni del parto (sembra che la produzione di quei simpatici magneti sia sorta proprio con il solo scopo di tener fissate le opere prime dei pargoli).
Ci sono passato anch’io, attraverso il meccanismo perverso. Un po’ più tardi, ancora non abbastanza consapevole. Era il 1972, non avevo ancora dieci anni e fui fulminato dalle immagini che ci giungevano dal Giappone, in occasione delle Olimpiadi invernali di Sapporo.

Avevo un album nuovo da disegno e decisi che sarebbe diventato il compendio iconografico di quell’agonismo in chiave nipponica. Sarei stato il Gustave Doré della manifestazione, e Sapporo sarebbe stato il mio Inferno da illustrare. Le mie tavole avrebbero goduto di fama immortale. “Le olimpiadi di Sapporo? Ah sì, le ricordo perché ci sono quelle meravigliose illustrazioni di…”
Avrebbero potuto fermarmi. Chiunque avrebbe potuto farlo, bastava un semplice “fanno schifo”. Gliene sarei stato grato, considerando i miei sviluppi artistici dal ‘72 ad oggi (ho una spiccata attitudine per il disegno tecnico, ma con una matita in mano e senza un paio di squadrette faccio danni). Invece, niente. Ricordo, in particolare, i pattinatori sul ghiaccio. Specialità velocità su pista. Ero rimasto impressionato dal movimento alternato delle braccia degli atleti, fatte oscillare per darsi la spinta mentre sono piegati in avanti a squadra, e poi utilizzate per contrastare, in curva, la forza centrifuga. Ne erano venuti fuori dei pupazzi improbabili, con le braccia piegate ad angolo retto e tutti visti di profilo come silhouette egizie. Li sogno ancora di notte, quando esagero con la peperonata.
Gridarono al miracolo. Chi? Tutti. Perfino la Maestra. Dio glielo avrà ormai perdonato, ma gridò al miracolo pure lei. Mi fece girare, come un idiota, a mostrare il mio capolavoro in tutte le altre classi.
Per fortuna, compresi piuttosto rapidamente e da solo il valore artistico della mia produzione e quell’album finì rapidamente nella spazzatura.
Alla fine, non mi sono fidato più di nessuno, ho optato per un percorso da autodidatta e faticando non poco a qualcosa sono giunto. Sta a significare che col tempo e con l’esperienza, della bellezza mi sono fatto un’idea tutta mia. Non sarà il massimo del rigore, lo ammetto. Probabilmente, farei inorridire un esperto di estetica, un filosofo; eppure, qualcosa di giusto deve pur esserci nel mio modo d’intenderla, perché è infallibile, per il mio modo di vedere. Ed è anche piuttosto semplice: la bellezza da sola non esiste. Io la considero indissolubilmente legata ad un fattore etico, sentimentale. Può essere, lo ammetto, che in questo io sbagli profondamente. Eppure, per me è così. Non trovo bellezza dove non ci sia onestà, comprensione, buoni sentimenti. Mi sembra, per così dire, di aver rovesciato il concetto greco del kalòs kai agathòs. Quelli, gli Elleni, dicevano che la bellezza già da sola era indice di bontà, di uno sguardo favorevole degli Dei, di una loro predilezione. Poiché eri bello, ti facevano anche buono. Per non farti mancare niente, full optional. Quelli brutti non li consideravano neppure: cornuti e mazziati, per usare il dialetto attico. Io tra gli Elleni sarei stato un rapinatore di vedove, per intenderci.
Come dicevo, tendo a rovesciare il concetto: “agathòs estì kalòs” (dove, al centro, la congiunzione è stata sostituita dal verbo). Vedo bella la gente che ritengo onesta, cortese, intelligente. Se una persona non mi piace moralmente, può anche aver vinto l’ultimo concorso di bellezza: inguardabile è e inguardabile resta.
Facciamo un esempio: Franco Battiato. Il compianto musicista siciliano ad Atene sarebbe stato usato per far passare il singhiozzo. Io l’ho sempre visto come un uomo di rara bellezza.

Aveva i modi gentili di una persona che non è in grado di concepire il male, la voce pacata di chi sa che le proprie idee sono vincenti per il loro valore, non per l’arroganza di volerle imporre. E aveva lo sguardo sincero e limpido di chi non sa mentire. Ogni tanto, quando parlava con un conduttore televisivo, gli sfuggiva un’ombra di sorriso, un intimo divertimento. Succedeva quando il giornalista di turno iniziava a dire sciocchezze (memorabile un’intervista condotta da Pippo Baudo nella quale il presentatore tenta di fare lo splendido, il brillante, e fa invece la figura del cioccolataio). Quel sorriso era un regalo per l’idiota di turno. Voleva dire: “potrei spazzarti via con tre parole, ma sarebbe un’inutile cattiveria”. Era un uomo bellissimo. Non solo moralmente. Era proprio bello e basta. Bello da fare innamorare le donne. Sarò pazzo? Può essere. Ne ho parlato più volte con delle amiche. Mi fidavo del loro gusto femminile, ma devo ammettere che non ho riscosso particolari consensi. Continuavano a indicarmi, in alternativa, il modello “Iglesias” che io classificherei, piuttosto, tra il materiale plastico non riciclabile.
Perfino negli animali trovo quel tipo di bellezza. Ho avuto gatti e cani che esteticamente non mandavano in visibilio le folle. Ma mi riservavano tali affettuose attenzioni che a me sono sempre sembrati meravigliosi, anche nell’aspetto. Una gatta quasi del tutto nera era senza un occhio, perso per un’infezione quando l’avevo tolta da un malsano cortile. Mi ha gratificato con 17 anni di empatia disinteressata e assoluta. Nemmeno più mi accorgevo che le mancasse un occhio. Era bellissima (come da foto).

“E però,” diranno i lettori più critici e attenti “la bellezza di un quadro, allora? Di una statua? Di un panorama?” Quando, insomma, sembra non essere percettibile, almeno all’acchito, un fattore etico, un’empatia, un affetto?
E vabbè, ma insomma! Mica posso pensare io a tutto…! Andate a chiedere al filosofo, ché gli fate certo un favore.