Te piace ‘o presepe’?

Il racconto esilarante di un presepe realizzato con proporzioni spropositate, cui però il destino riservò la brutta sorpresa di essere demolito prima della sua inaugurazione

Di Federico Maderno – scrittore  

 Decidemmo, quell’anno, di trascorrere il Natale nella casa di campagna. Era la prima volta che accadeva. L’atmosfera era propizia per passare le giornate in assoluto riposo, rintanati in casa: faceva freddo ed erano tempi in cui non ci si stupiva se le nevicate si valutavano a palmi e non a centimetri. L’idea originale era quella di preparare il solito presepe di un paio di metri quadrati. Un po’ di montagne con qualche casetta piazzata in maniera precaria sui fogli marroni accartocciati e i pastori accorrenti alla capanna, sistemati rigorosamente in ordine di altezza per creare l’illusione della prospettiva. Avevamo portato il materiale necessario, stipato in quattro scatole ed avvolto nei giornali, per prevenire i possibili danni causati dal trasporto. L’allestimento avrebbe richiesto un paio di ore ed una collocazione discreta, magari in un angolo dell’ingresso, dove avrebbe dato ben poco fastidio. Ma era destino che quella volta le cose andassero diversamente.

   Saranno state le rimembranze dei Natali di quando ero fanciullo, sarà stata la presenza di due nipoti di pochi anni, inevitabilmente entusiasti. Certamente, giocò un ruolo decisivo la laurea in ingegneria conseguita da poco. Mi prese una strana mania di grandezza, la voglia di divertirmi e di stupire.

– Liberatemi la sala, ché faccio il presepe! – dichiarai, quando mancavano quattro giorni alla mezzanotte fatidica.

– Come, la sala?! – protestò qualcuno, in famiglia. – Non ti basta un angolo del tinello o del corridoio?

La sala da pranzo, va detto, era una stanza di notevoli dimensioni ed era in quel momento a completa disposizione, giacché si era deciso di non utilizzarla e di concentrare il riscaldamento sul resto della casa

–  No, non mi basta. Ne faccio uno nuovo, strabiliante.

Avevo già lo sguardo perso nei ricordi di presepi meccanici visitati da centinaia di fedeli.

– Ma cosa vuoi fare?

– Lo faccio con l’acqua che scorre davvero. Sono stufo di quei rigagnoli falsi, sbilenchi, di carta stagnola che si solleva ad ogni refolo d’aria.

Provarono a dissuadermi, ma ormai mi aveva colto il demone della creatività.

Il primo passo fu procurarmi la forza motrice. Andai a colpo sicuro: sapevo che in cantina dovevano esserci due motorini elettrici recuperati da piccoli ventilatori. Aspettavano solo di essere riutilizzati e quella era l’occasione giusta. Ne applicai uno al mulino ed ovviamente l’accoppiamento diretto ricreava l’effetto centrifuga costringendo la ruota ad un numero impressionante di giri. Allora, tramite un rocchetto ed un elastico robusto demoltiplicai la trasmissione. Le pale, a quel punto, giravano ad una velocità accettabile e l’effetto era garantito. Certo, era il mulino a far scorrere l’acqua e non viceversa, ma per un osservatore non troppo puntiglioso l’estetica poteva dirsi salva.

Ecco, avrei dovuto fermarmi a quel punto. Ce n’era abbastanza per far fare “Ohhhh” a qualche vicino in visita di cortesia e a soddisfare il mio ego ingegneristico. Invece, scoprii di avere in cantina anche un tubo trasparente, di grosso diametro. Tagliato longitudinalmente e sistemato a formare delle anse aggraziate, sarebbe stato ideale per formare un piccolo rivo. Sulle sue sponde, una barriera di muschio avrebbe occultato il bordo di plastica rendendo assai verosimile la scena.

Tutto il sistema poteva essere alimentato dalla pompa ad immersione che l’estate creava in giardino lo spruzzo centrale di un piccolo laghetto.

La recuperai dalla cantina e procedetti con qualche esperimento.

Pareva facilmente utilizzabile, ma la sua portata, per quanto regolata al minimo, riversava sul torrentello un volume d’acqua spaventoso. Una prima prova sparò un pastore ad alcuni metri dalla sua postazione ed allagò gran parte della stanza. L’accaduto suscitò un’ilarità incontrollabile, tanto che faticai non poco a convincere i due pargoli che per quanto divertentissima quell’esperienza non andava ripetuta. Fu lampante che l’unica soluzione era quella di suddividere il getto in più utenze, tramite una serie di tubetti ben dissimulati sotto l’allestimento.

Persi il controllo, lo ammetto. Tutta quella portata a disposizione scatenò le peggiori fantasie progettuali. I torrentelli diventarono tre. Partivano dalla finta roccia sullo sfondo e si snodavano verso l’osservatore, per andare infine a scaricarsi in maniera occulta nella vaschetta di alimentazione. Lungo quei canali sorsero alcuni strani opifici alimentati ad acqua (si trattava ovviamente delle solite casette di pastori riciclate per l’occasione) e l’economia stessa della zona sembrò concentrarsi su quell’inaspettata risorsa.

Felici sembravano le lavandaie, prima costrette ad accontentarsi di pozze di quella maledetta stagnola.

I portatori d’acqua, che una volta vagavano inebetiti con i loro secchi sistemati alle estremità di un basto di legno, parevano aver trovato un senso alla loro vita.

Paperette e anatre che a decine riempivano un sacchettino riservato agli animali vissero un momento di gloria. Alcune, costruite con una plastica leggera e dunque galleggianti, venivano trasportate lungo gli alvei e si dovette costruire una specie di griglia per intercettarle e rimetterle verso monte. Altre andarono a popolare il laghetto del mulino. Scoprimmo così che i vortici creati dal motorino ne spingevano ogni tanto qualcuna sotto la ruota, condizione che le proiettava violentemente in avanti. L’effetto era certo meno pirotecnico dell’allagamento del presepe, ma ci indusse ad un piccolo campionato di abbattimento dei pastori, al termine del quale si scoprì che “l’anatra col becco venato” non aveva rivali. Alcuni cammelli, altre volte utilizzati per nobilitare la scena nei pressi della natività, furono collocati sulle sponde dei corsi d’acqua. Il tacchino zoppo, che notoriamente riusciva a rovesciarsi senza alcun apparente intervento esterno, finì inevitabilmente in uno dei rivi e trasportato a valle fu lasciato al suo destino

Perfino il “castello” tornò in auge. Si trattava di una struttura di cartapesta di rara maestosità e dotata di una torre di stile vagamente gotico. Da anni, per questa sua incongruenza architettonica e pur mantenendo un posto tra il materiale inscatolato del presepe, era bandito da ogni allestimento.  Ma era dotato di un ponte ad arco sotto il quale si poteva installare una piccola luce, perfetta per esaltare lo scorrere dell’acqua. Fu collocato in alto, esageratamente, come mai avrebbe potuto sperare, e da sotto l’arcata illuminata lasciò riversare a valle uno spruzzo potente e disordinato, ché di cascata propriamente non si poteva parlare.

La maledetta pompa (almeno lei avrebbe potuto accorgersi di quanto stava accadendo e limitare il suo temperamento) pareva in grado di alimentare ogni ulteriore derivazione.

Trascorsero, in questa follia idraulica, almeno tre giorni.

Il presepe aveva raggiunto proporzioni spropositate ed era ridotto ad un acquitrino gocciolante; rivi e sorgenti spuntavano da tutte le parti, come se quella terra arida avesse ospitato per una settimana un convegno di rabdomanti impazziti. E Betlemme, a vederla a volo d’uccello, si sarebbe detta “la piccola Venezia d’oriente”.

I bambini sembravano impazziti. Niente sembrava troppo ardito da non poter tentare di realizzarlo.

– Fassàmo ancòa una cacàta! – urlavano, non appena l’ennesimo allestimento idraulico dimostrava di funzionare.

Io, inorgoglito da quel progressivo successo, invece di contenerli facevo a gara per proporre nuove e più assurde soluzioni.

I nonni, loro sì, parevano assai preoccupati dallo sviluppo dei lavori che non contemplavano ancora niente di somigliante a una mangiatoia. La “notte magica” stava avvicinandosi con inarrestabile rapidità e là dove doveva essere collocata la grotta/capanna si notava ancora una sconcertante precarietà d’allestimento.

– Ma questa mangiatoia? – chiedevano, impensieriti.

– Adesso la faccio… Ho praticamente finito – mentivo io.

Alla fine, trovammo il tempo per fare anche quella. Un po’ in disparte, defilata. Certo, non era la prima cosa su cui cadeva l’occhio a chi si avvicinava al presepe. Di pastori, davanti, ce n’erano pochini. Perfino la lunga fila di lampadinette aveva preso un’altra strada, costretta a illuminare ogni particolare del sistema idraulico palestinese. Immerso nella penombra, non fosse stato per la stella cometa quell’angolo sarebbe passato del tutto inosservato.

In ogni caso, il 24 dicembre eravamo pronti per aprire il presepe al pubblico. Immaginavo, per il giorno dopo, processioni di vicini e parenti, giunti per vedere l’ottava meraviglia. Temevo che la logistica della casa non reggesse alla pressione dei visitatori e immaginai che fosse necessario procurarsi parecchie sedie da collocare davanti a Betlemme. Ma mi sbagliavo. Non ce ne fu bisogno. Nella notte, qualcuno dimenticò inopinatamente aperta la porta della sala e Max (il più grosso tra i gatti di casa e il più giocherellone) distrusse letteralmente tutto. Lo trovammo, la mattina di Natale, con uno dei cammelli tra le zampe. Se l’era portato nella cuccia come trofeo, ma il resto del presepe era un’accozzaglia inguardabile di carta da montagne fradicia, casette e tubi di plastica. Il tacchino zoppo (lo dico per gli amanti della verità storica) non fu mai più trovato. Se ne piange ancora la dipartita.

Restava praticamente illeso solo l’angolo della mangiatoia, e quella parte di installazione rimase disponibile fino all’Epifania.

Sono passati anni, da quella notte. Tanti e tanti. A ben pensarci, dev’essere stato l’ultimo presepe che ho allestito. Nel frattempo, ho affinato una mia particolarissima forma di agnosticismo, che dovrebbe rendermi immune dalla seduzione della Banda del Bambinello.

Qualche giorno fa, sono andato a razzolare in un mercatino dell’usato. La mia esperienza in merito è sostanzialmente nulla. Sono un neofita del riciclo. E ho scarse speranze di migliorare. Perché resto affascinato dalle porcherie inguardabili e quando invece passo davanti ad un Picasso non riconosciuto dagli stessi venditori non mi accorgo che con i suoi 30 euro trattabili sarebbe l’affare del secolo. Ma ogni tanto, ostinatamente, vado a razzolare. Mi sgombera la mente, mi fa sentire parte della grande famiglia degli antiquari. Mi porto anche un “metro”, uno di quei flessimetri metallici che raccolgono, in una scatoletta che sta in una mano, cinque metri di nastro metallico graduato. Ho scoperto che mi dà un tono (“per avere più carisma e sintomatico mistero” direbbe il poeta). Ogni tanto lo tiro fuori e misuro qualcosa: una cassettiera, il braccio di una applique di ottone, perfino il diametro di una brocca di vetro. Mi fa sembrare intelligente, anzi, con un progetto in testa, che è anche più seduttivo. Prendo due misure e poi, mentre il nastro metallico si rifugia nel suo alloggiamento con uno scatto secco, faccio scorrere una mano sul mento, ad occhi socchiusi. Ci cadono in parecchi. Ho visto coppie passarmi vicino con una certa soggezione, timorose di sfiorarmi e di disturbare, in tal modo, i miei arcani pensieri. Un’anziana signora, una volta, mi si è avvicinata e mi ha chiesto, con voce affettuosa: “Lei che se ne intende… pensa che questa stampa dell’800 abbia un qualche valore?”. Sono trasalito. Colto dalla disperazione di poter arrecare un danno, in un senso o nell’altro, ho adottato una tecnica che metteva in atto un mio dirigente scolastico, quando gli chiedevi se un progetto poteva trovare finanziamento. Basta dire “Perché no? Ma certo!” e intanto fare “no” con la testa in maniera esagerata, inequivocabile. Oppure, esattamente il contrario. Per la cronaca, non ho mai ottenuto finanziamenti, ai miei progetti.

Dunque, qualche giorno fa ero lì a recitare la parte dell’intenditore meditabondo. Mi è caduto l’occhio su un presepe in miniatura, di quelli fatti in ceramica che in un guscio grande quanto una mela riescono a far stare tutti i personaggi della natività (bue ed asinello compresi). Ho sentito una presenza alle spalle e mi sono voltato di scatto. C’era un signore anziano (più anziano di me, intendo) che mi osservava con gli occhi acquosi di un cocker. Osservava me e quello che avevo appena preso in mano.

– È bello, vero? – ha detto. – Anche a lei piacciono i presepi?

– No! – ho mentito stizzoso.

L’uomo mi ha guardato senza stupore e ha scosso lentamente la testa.

Mi sono avviato alla cassa, senza nemmeno aver controllato cosa costasse quella piccola porcellana che avevo in mano.

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