Che l’atteggiamento verso i soldi derivi in gran parte dall’ambiente in cui si è vissuti da bambini è un dato di fatto, ma forse non basta a spiegarlo completamente
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica
Non ho la minima idea di quale fosse l’atteggiamento di mia madre nei confronti del denaro. Quando è morta ero troppo piccola, posso solo dire che le piacevano le cose belle, e che non disdegnava le piccole comodità, il confort di un cappuccino in un bar piacevole o un taxi quando era il caso. E, in effetti, nella mia famiglia equamente divisa in due, era il lato materno, per quanto meno fornito di denaro, a indulgere volentieri in spese frivole, aperitivi o cene fuori. Mentre il mio nonno paterno, pur non avendo mai avuto grossi problemi economici, era noto per stratosferici atti di avarizia che in me bambina rievocavano la figura di Zio Paperone (anche se, per essere onesti, non mi aveva mai fatto mancare un regalino o un pacchetto di caramelle).

Quanto a mio padre, aveva un atteggiamento ambivalente: spendeva volentieri ma solo per le cose che gli interessavano, ossia per libri, viaggi e scuole o corsi per me. Le spese inutili (e la voce comprendeva abiti, bar, ristoranti e altri confort) lo infastidivano, e ogni acquisto richiedeva faticosi negoziati dai quali assai spesso uscivo perdente. Non c’è da stupirsi quindi che io abbia qualche difficoltà a relazionarmi con il denaro.
Tutto sommato, forse preferirei tornare all’epoca del baratto: nella storia dell’umanità il concetto di denaro è nato abbastanza tardi, e per diversi millenni ce la siamo cavata egregiamente con altre forme di scambio. Pare che le prime operazioni commerciali nel senso moderno del termine – utilizzando però metalli preziosi o granaglie, non quindi denaro in senso stretto – siano avvenute nel vicino Oriente circa tre millenni pima della nostra era. Questi e altri sistemi hanno comunque permesso di sviluppare fiorenti commerci.

E se la tradizione attribuisce l’invenzione della moneta al re della Lidia Creso, vissuto nel VI secolo a.C., è possibile che i due sistemi abbiano convissuto per secoli: lo stesso termine denaro deriva da denarius, il nome di una moneta romana in argento, mentre il salario si chiama così perché una razione di sale – salarium – era per i soldati romani una componente importante della retribuzione. Anche in tempi assai più vicini a noi – senza scomodare i capponi di Renzo Tramaglino, obolo destinato a ingentilire l’avvocato Azzeccagarbugli – specie in campagna era piuttosto frequente integrare o sostituire una parcella con omaggi di vino, formaggio o altri alimenti.

Poi, certo, sono arrivate le banconote, nate in Cina e diffuse in Europa solo dopo molti secoli: inizialmente si trattava di lettere di cambio – o note di banco, da cui il termine banconota – che attestavano l’avvenuto deposito di una certa quantità di oro o argento presso una banca, permettendo al portatore di ritirarne analoga quantità presso un’altra filiale, senza dover viaggiare con il metallo prezioso. Da queste lettere è nata anche la cambiale, che rappresenta una promessa di pagamento: la sua invenzione è in genere attribuita al mercante pratese Francesco Datini. Assai più tardi sono arrivati gli assegni bancari, poi le carte di credito – di cui oggi ci sembra di non poter fare a meno mentre sono un’invenzione recente, essendo comparse intorno al 1950 negli Stati Uniti – fino agli attuali sistemi elettronici di pagamento.
Per quanto mi riguarda, mentre apprezzo le comodità e la sicurezza faccio molta fatica a desiderare il denaro in quanto tale: da bambina quando settimanalmente ritiravo la – modesta – paghetta che mi era riconosciuta la vedevo immediatamente trasformata nei beni di mio interesse immediato, ossia giornalini e frattaglie di macelleria per i gatti randagi che popolavano il mio cortile. Non mi è mai venuto in mente di “risparmiare” per comprarmi qualcos’altro, o di chiedere un aumento.

Anche adesso, molti anni più tardi, penso che – per chi abbia il necessario – sia più semplice moderare i propri desideri che cercare di guadagnare di più, una scelta che impone inevitabilmente dei sacrifici, in termini di tempo libero o di piacevolezza delle occupazioni cui ci si dedica. Cercando di perseguire la giusta via di mezzo, secondo la tradizione buddista – e non solo – che invita a evitare gli estremi dell’auto-indulgenza e dell’auto-mortificazione. E quando leggo di vincite milionarie, la mia prima reazione è un’ansia sincera per chi improvvisamente si trova a gestire somme al di là della propria portata, e rischia di dover fare i conti con la difficoltà a distinguere tra amici sinceri e persone che si avvicinano con la speranza di ricavarne qualcosa.
