Una partita a tre
Di Federico Maderno – scrittore
Via Attilio Pedrosa 13/ scala B interno 4
Ho guardato dappertutto, mi sembra.
Credo di aver frugato in ogni angolo della casa. Anche in quei posti dove non aveva senso cercare, perché la logica e la memoria mi dicono che lì non avrei potuto infilarlo, nemmeno per sbaglio; nemmeno facendolo soprappensiero o assestandogli involontariamente una spinta. Niente: quel maledetto volumetto non viene fuori.
Nell’appartamento, ho recuperato perfino cose che non trovavo più da anni; a dirla tutta, anche cose che non ricordavo più di avere e perfino oggetti che nemmeno sforzandomi riesco a rammentare di aver comprato o credere che qualcuno mi abbia regalato.
Sotto il letto, per esempio, è saltata fuori la gomma da cancellare Oregon che usavo quando ancora si ripassavano i disegni a china, prima di fare le elio-copie. L’avevo cercata per ore, nello studio, e Dio solo sa come è potuta arrivare in camera. Può essere che le abbia affibbiato qualche calcio senza accorgermene e che la sua elasticità abbia fatto il resto. S’era nascosta all’altezza della testiera, piazzata in verticale contro il muro, così che nemmeno l’ho vista ogni volta che ho spostato il letto, per le pulizie.
Nel mobiletto del terrazzo, invece, proprio sotto una pila di riviste sul giardinaggio ho trovato una pinza per fare gli innesti, ancora custodita nella sua scatola di cartone. L’ho acquistata io? Non credo. E allora, a chi sarebbe venuto in mente di farmene dono? Mah!

Il libro maledetto, no. Quello non si trova più. “Bruciasse”, come diceva mio zio quando si trovava nelle stesse situazioni. “Almeno si capirebbe dove s’è andato a cacciare”. Poi, ci ripenso e… no, meglio che non bruci perché allora sarei proprio nei pasticci.
Ho cominciato a cercare poco dopo le sette. Lo faccio ogni mattina da più di dieci anni. E da allora, non impiego più di due minuti per individuare la copertina marrone con fregio dorato che può salvarmi la vita. Ma oggi, sembra che il maledetto blocco rilegato abbia deciso di farmi impazzire, che mi veda arrivare e animatosi riesca a spostarsi quel tanto che basta per non farsi individuare.
Provo a ripensare a ieri, all’ultima volta che l’ho visto e l’ho usato. Dovevo essere vicino al telefono, per forza, e allora non lontano da lì dovrebbe trovarsi. Che io possa aver fatto la sciocchezza di farlo uscire di casa lo ritengo impossibile. Ad ogni buon conto, ho riguardato ben tre volte la borsa che uso per i documenti e perfino sono andato a controllare nel sacchetto dell’immondizia.
Niente e poi niente.
Alle nove, già discretamente disperato, ho ricominciato da capo. Questa volta, cercando di essere più metodico. Iniziando cioè dalle postazioni più vicine al telefono fisso e poi allargando il raggio d’azione. Alle dieci, più o meno, ero al punto iniziale. Con l’appartamento ormai ridotto ad un bazar e la paura che la ricerca, che pur doveva andare avanti, risultasse ancora meno agevole.
Ho fatto un ultimo tentativo sistematico. Ho ricominciando dall’inizio, procedendo un vano alla volta, ma senza successo. A quel punto, è iniziata la vera disperazione.
Perché in quel volume dalla copertina marrone un po’ rugosa, conservo, regolarmente in ordine cronologico, ossia appuntati accanto ad una data progressiva, dodicimila codici alfanumerici di sette cifre ciascuno creati circa tre anni fa da un sistema automatico. Ironia della sorte: quello di ieri (mi servisse a qualcosa, almeno!) me lo ricordo perfino a memoria: 34GK10U.
Cosa me ne faccio, di quei codici? È semplice. Ogni mattina, prima delle ore dodici, compongo il numero di un cellulare. Una voce calma, impassibile, mi dice semplicemente: “Sì?” . A quel punto, io gli leggo il codice corrispondente alla data del giorno (per sicurezza, lo leggo due volte, non volesse il cielo che io dovessi sbagliare a dettarlo) e così mi salvo la vita, per un giorno. Se il cellulare non fosse raggiungibile, posso inviare un sms o in alternativa un messaggio di posta elettronica. Sempre, naturalmente, corredato di codice aggiornato.
Chi ha concepito un tale sistema perverso? Io, naturalmente. E mi costa non poco, per giunta. Quattromila euro ogni mese, attraverso un bonifico su conto svizzero, intestato ad un improbabile Mario Rossetti. Del resto, non sono i soldi a farmi difetto.
All’altro capo della linea, c’è una persona che ha le credenziali per accedere a quel deposito d’oltralpe e conserva un libro identico al mio, con gli stessi codici. Naturalmente, non si chiama Mario Rossetti e a dire il vero io non so neppure quale sia il suo vero nome. A me, lo hanno presentato come Jack La Faina e di mestiere fa il sicario, il Killer professionista.

Se entro il mezzogiorno di ogni giorno non riceve quella telefonata, si assicura che il mio apparecchio sia raggiungibile, che non ci siano stati problemi di contatto, e immediatamente si attiva per uccidermi, non appena io metta piede fuori dalla mia abitazione. In ogni caso. Qualunque cosa io possa dire, senza il minimo ripensamento o esitazione. Questo è il contratto che abbiamo stipulato.
Ho scelto Jack, perché non è uno di quei pivelli tutti muscoli e niente cervello. L’ho scelto perché non è un ragazzino, ma un uomo di esperienza e deve perciò sapere lui stesso cosa possa essere la crudezza della vecchiaia.
L’ho fatto perché io della vita non ho paura di niente, tranne della possibilità di diventare una di quelle larve inconsapevoli consumate dall’Alzheimer o dalla demenza senile. Quello, proprio, è il mio unico, vero terrore.
Meglio non rischiare. Meglio la certezza di essere in grado, all’ultimo, di togliersi in tempo dalla ribalta e di non fare la fine di qualcuno che non ci ha pensato per tempo e poi non ne ha avuto più modo. Perché la lucidità può mancarti all’improvviso e quando accade è già troppo tardi per tenere ancora le briglie in mano.
Così, devo dimostrare ogni giorno di essere in grado di compiere una procedura semplice ma allo stesso tempo probante. Di ricordare, insomma, significato e meccanismo di quella verifica che mette in gioco la mia esistenza.
Siamo in tre, a giocare questa partita. Io, Jack La Faina e l’Alzheimer.

C’era solo un problema, da considerare. E l’ho fatto nel modo migliore. Jack potrebbe scegliere di non portare a compimento la sua missione. Una volta verificato il mio deterioramento neurologico, potrebbe convincersi che io non sia più in grado di effettuare il bonifico mensile. A quel punto, potrebbe lasciarmi, semplicemente, al mio destino. Come un limone spremuto che non vale nemmeno la pena gettare nella pattumiera. Per quello, l’ho citato nel mio testamento. Non una grande cifra, sia chiaro. Niente che possa invogliarlo a passare con anticipo alla cassa. Chiamiamola una buonuscita di tutto rispetto. Per avere la quale, senza attendere troppo, deve avvitare il silenziatore alla sua arma.
Ma oggi, il sistema si è inceppato. Manca solo un quarto d’ora, alle dodici, e quel maledetto quaderno con la copertina marrone non salta fuori. Eppure, lo so, nulla varrebbe pregare, scongiurare, provare a spiegare la situazione. Il meccanismo l’ho creato io e l’ho studiato bene, a prova di incertezze, spietato.
Ancora pochi minuti per fermare la ruota. Per non essere costretto a star rintanato in casa mia per i prossimi giorni, senza neppure andare a procurarmi un po’ di cibo. Poi, non so. Ma sento già il sibilo della pallottola che deve raggiungermi al cervello, per colpirmi lì dove il mostro rischia di essersi sviluppato…
Via Gaspare Candotti 18/16
Questa mattina, non mi è ancora arrivata arriva la solita telefonata.
Situazione strana, da un po’ di tempo. Il telefono squilla, io vado a rispondere e non faccio a tempo a dire “Sì…?” che un imbecille mi snocciola una sbrodolatura di numeri e pezzi di alfabeto del tipo 90UK34LN8 o roba di questo genere. Non faccio a tempo a dire “Chi cazzo sei?” che il tipo interrompe la comunicazione. La cosa buffa è che ho trovato qui in casa un quaderno marrone con dentro una serie di cifre senza senso proprio come quelle che dice al telefono il tizio sconosciuto; e neppure ricordo perché io lo abbia conservato. Del resto, di gente pazza non ne manca. Ieri, o forse due giorni fa mi viene alla porta un tipo con la faccia segnata da una cicatrice. Mani infilate nelle tasche di un impermeabile e sigaretta tra le labbra.
– Ehi, Jack, come ti butta? – mi dice.
– Ma che vai cercando, amico? – gli faccio.
Lui mi osserva strano.
– Hanno detto gli amici che da qualche settimana non te le passi molto bene… – insiste, guardandomi dritto negli occhi.
– Ma di che amici va parlando?
– Senti, Jack, se c’è qualcosa che non va…
– Ma chi sarebbe, poi, questo Jack – gli faccio. – Io mi chiamo, io mi chiamo…
Va bene, al momento non ricordavo di preciso il mio nome, ma qualcosa devo pur avergli detto, perché mi ha squadrato ancora fisso, poi ha scrollato un po’ il capo e se n’è andato via.
A proposito: questa mattina non mi è ancora arrivata la solita telefonata. Situazione che mi sembra davvero strana. Vado a rispondere e dall’altra parte un tipo mi fa: ER67M9M8 o robe del genere. E poi, ho qui in casa un libro marrone che non so come mi sia arrivato e…
