Non sappiamo più attendere, senza sapere quanto invece serva…
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

“Conta fino a dieci, prima di…”rispondere, arrabbiarti, in generale fare qualcosa. Ci siamo cresciuti, con questa frase: nella società in cui siamo nati l’impulsività non era una virtù, e ponderare su qualcosa era quasi sempre la scelta più saggia. E noi eravamo abituati ad aspettare: non c’erano app che ci consentissero di arrivare alla fermata un attimo prima dell’autobus, o di saltare la coda alla posta. Né messaggistiche istantanee: le persone potevano essere irraggiungibili per ore, e succedeva di incontrarsi più o meno casualmente “al solito posto”. Oppure di aspettare la familiare scampanellata che annunciava un amico, o ritrovarsi a guardare il telefono, sapendo benissimo che quello era il modo più sicuro per continuare a sospirare una chiamata che sarebbe arrivata non appena fossimo andate in bagno, o avessimo messo una pentola sul fuoco.
Lo stesso valeva per una serie di esperienze piacevoli che ci venivano fatte sospirare: dai dolci – che arrivavano la domenica o in occasione di compleanni o altre ricorrenze – al permesso di fare un acquisto importante, rimanere fuori fino a tardi o indossare una gonna un po’ più corta del solito. Certo, c’era sempre la possibilità di trasgredire i divieti, o cambiarsi in ascensore appena uscite da casa. Comunque sia, eravamo allenati: un allenamento che tornava utile quando, arrivati al liceo pronti a sognare sui versi di Catullo o di Saffo, e ci trovavamo a compitare elenchi di “rosa rosae” o di paradigmi greci. Perché in genere per arrivare a un’esperienza gratificante – si tratti di conoscere una lingua, di praticare uno sport o di suonare uno strumento- è inevitabile passare da una fase di apprendimento che può essere noiosa e ripetitiva. E diventa sopportabile solo se impariamo ad accettare un percorso faticoso, anche se con i suoi momenti belli, e a rinviare le gratificazioni.
Ad attendere si impara: è un processo graduale, che va di pari passo con lo sviluppo della nostra corteccia frontale e si conclude, secondo le ricerche più recenti, intorno ai venticinque anni. I neonati non sono capaci di attendere – basta pensare ai loro pianti disperati quando hanno fame o sonno – ma vari studi dimostrano che bambini anche molto piccoli possono imparare a farlo. E insegnarglielo fa, o farebbe, parte dei compiti di un genitore, oltre a essere un utile allenamento all’autocontrollo che serve poi, nella vita, a superare la frustrazione delle attese.
Intendiamoci, ci sono attese che fanno male, come quella dei risultati di un esame clinico: è giusto ricordare che per chi sta male il tempo sembra non passare mai. Ma ci sono attese belle, come quelle, accompagnate dalla fatica, di chi suda su un sentiero di montagna attendendo di pregustare il panorama che lo aspetta. O quelle scandite dai rituali che accompagnano la storia dell’umanità: pensiamo al fascino che ha, anche per chi non è credente, un calendario dell’Avvento o i preparativi di qualunque ricorrenza.

”Colui che attende trova” ricorda lo psicoanalista Masud R. Khan. E’ difficile convincersene oggi che viviamo come eterni adolescenti nell’epoca del tutto e subito e del “ tempo reale”: tutto ciò di cui abbiamo bisogno è a portata di mano, o meglio di mouse. E questo ci rende insofferenti: secondo uno studio inglese in genere ci mettiamo otto minuti a perdere la pazienza, e quando siamo davanti al computer la soglia di sopportazione non supera il minuto.
Certo, in genere quello che desideriamo arriva – sia un libro o un film da scaricare, la puntata on demand della serie che amiamo o un messaggio atteso che mail e app ci consegnano appena inviato – ma siamo sicuri che tutto questo non ci faccia perdere qualcosa? Sappiamo che attendere allena la nostra capacità di tollerare imprevisti, e spesso si porta dietro la noia, di cui ormai conosciamo il potere di sviluppare riflessioni creative.
Oggi ci sono studi che mostrano i vantaggi dell’attesa per la nostra psiche, ma già Il sabato del villaggio ci ricordava che la vigilia è spesso più piacevole dell’evento stesso. E non serve il pessimismo leopardiano per costatare che può essere così, perché attendendo una ricorrenza possiamo immaginarla come più ci è gradito, e nell’immaginazione niente può andare storto.
Proviamo a pensarci per un attimo sul quel sentiero di montagna: siamo sicuri che il panorama ci emozionerebbe allo stesso modo se potessimo raggiungerlo senza sforzo, e che l’acqua fresca che esce – finalmente!- da una fontana raggiunta con fatica non ci sembri migliore di quella che esce da un distributore automatico?

PS nella mia esperienza, c’è almeno un caso in cui questa regola non vale, ed è il “ dopo” un evento piacevole: la gioia di consumare in compagnia, senza ansie o formalità, ciò che è rimasto del pranzo preparato con cura per un’occasione importante, o di ritrovare il nostro divano dopo una passeggiata impegnativa, per ripercorrere nella mente i bei momenti trascorsi.