Lettera aperta ad un falso mito
Di Federico Maderno – scrittore
Carissima Speranza,
peccato, davvero un peccato che tu sia l’ultima a morire. Sì, Speranza, dico a te. Non avertene a male ma io ti odio e vorrei vederti agonizzare. Non certo perché invidio questa tua longevità inutile, stucchevole; del resto, non vorrei certo essere io, l’ultimo a crepare. Tutt’altro, non ci tengo affatto. Sarebbe una situazione tristissima e la sola che un essere umano dovrebbe aborrire. Il motivo è un altro. Mi piacerebbe vivere abbastanza per vederti “tirare il gambino”, per osservare come te la caverai quando non avrai più nessuno da tormentare.
Ora, cara Speranza, mettiti comoda che ti spiego, se t’interessa almeno un poco, il perché di questo mio odio ancestrale nei tuoi confronti.
Inizierò con un esempio:
Interno giorno. Sala d’aspetto del reparto chirurgia di un ospedale. Dietro la porta a vetri smerigliati s’intravvedono finalmente un po’ di sagome chiare che si agitano; ed un brusio incomprensibile, il classico borborigmo intestinale delle sale operatorie, il “rabarbaro rabarbaro” delle scenografie chirurgiche filtra oltre la barriera sacrale ed invalicabile della zona interdetta, facendosi rapidamente sonoro. Poi, l’ombra di un braccio si staglia più nettamente contro il cristallo perché qualcuno ha posato una mano sulla maniglia e chi l’ha fatto si attarda ancora un poco a parlare con qualcun altro che, evidentemente, non uscirà. Il chiacchiericcio si fa improvvisamente un sussurro. Chi sta al di là della vetrata è probabile che si stia scambiando sguardi e cenni d’intesa, di quelli coi quali si è abituati a capirsi senza dover far parole. Ancora un attimo di silenzio assoluto. Sembra di vedere la sagoma chiara di quello che sta più vicino alla vetrata fare un’alzata con le spalle, allargare le braccia in un gesto di rassegnazione. Poi, finalmente, l’anta si spalanca con uno scatto secco, metallico, e l’assistente del primario, con la mascherina penzoloni da un orecchio e l’aria assonnata, cerca con gli occhi i parenti del ricoverato.

– Allora? – chiede la moglie dell’operato andandogli incontro insieme a qualche altro parente.
– Noi quello che potevamo fare lo abbiamo fatto… – dice il chirurgo. – Ora bisogna solo sperare…
Eccoti, maledetta Speranza. Sei arrivata al momento giusto (ossia proprio in quello sbagliato). Sei arrivata a portare la condanna finale, inconfutabile, soprattutto pregna di un qualunquismo volgarissimo. Arrivata tu, o dea dell’immobilismo, tutto si ferma, ogni volontà si acquieta in un dolce far niente. Tu, in fondo, sei la negazione di te stessa, la pietra tombale dell’agire.
– Bisogna solo sperare…
In altre parole, non si fa più niente. Ci si mette in attesa degli eventi, con nel cuore quell’assurda sensazione di sconsiderato, flebile ottimismo. “Speriamo”, si dice, e non a caso si alzano gli occhi al cielo (spiegheremo in seguito perché).
Invece…
Stessa situazione di prima.
Si spalanca la porta di vetro smerigliato ed esce il già citato assistente del primario. Stessa mascherina pendula e occhi stanchi, ma nello sguardo un piglio tutt’altro che rassegnato.
– Allora?! – domanda la moglie dell’operato.
– C’è poco da sperare, cara signora… Anzi, a dirla tutta abbiamo perso ogni speranza.
– E dunque? – esclama la donna con tono angosciato.
– Dunque, dobbiamo darci da fare.
– Ma come?
– Non vorrà mica aspettare che avvenga un miracolo dal cielo, no?
– E allora?
– Questo pomeriggio chiamo un collega che ha grande esperienza in merito. E poi, c’è la possibilità di provare un farmaco del tutto nuovo. Niente di certo, intendiamoci, ma sempre meglio che affidarsi ad un inutile immobilismo.
– Oh, bene, lei mi ridà qualche speranza!
– Allora, non ha capito niente, signora mia! – esclama il chirurgo indispettito. – Le ho detto che di speranze non ce ne sono più, che di metterci seduti ad aspettare non ne abbiamo nessuna voglia.
Ora, “Signora Speranza”, veniamo al lato pratico delle cose.
A cosa serve, affidarsi a te? Forse che col semplice sperare la situazione ha un milionesimo di possibilità in più di aver successo, di evolvere in senso positivo?
Dialogo immaginario al tavolino di un bar:
– Eh, caro amico! Le cose stavano proprio per mettersi male…
– Ah si?!
– Ma scherzi?! Eravamo sull’orlo del fallimento e fosse saltato quell’ultimo affare, avremmo dovuto prendere i libri contabili ed andare di corsa in tribunale.
– Ma tu pensa… E poi?
– Ah, beh, poi ci siamo messi a sperare!
– Cosa mi dici!?
– Ma te lo giuro: avresti dovuto vedere. Io che speravo tutto il giorno, il mio socio che con un’ostinazione encomiabile non perdeva la speranza. La segretaria, poverina, che nutriva grandi speranze (tra l’altro, sembra che le speranze mangino un finimondo). Arrivato a casa venivo accolto da mia moglie a suon di: “non disperare, tesoro!”. Perfino il vicino di casa, quando mi incontrava per le scale, “Spero bene per lei!” mi diceva, amabilissimo. Chiedevo al mio commercialista. Lui alzava gli occhi al cielo e diceva: “abbiamo ancora qualche piccola speranza che…”. “Come, < qualche piccola >?!” protestavo io. “Ma allora, lo dica chiaramente: lei rema contro!”. Alla fine, anche lui si è convertito ad un più proficuo “ci sono ottime speranze”.
– E così?
– Capisci bene che con tutte quelle speranze in campo, l’affare non ha potuto che incamminarsi nel migliore dei modi…

Eppure, nonostante tutte le evidenze, hai buon gioco. Perché siccome su questo misero Pianeta di occasioni per rimanere sui carboni ardenti ce n’è gran copia, ecco, maledetta, nuove schiere di illusi che si affidano a te come ad una panacea.
Sai a chi assomigli? A quell’altra bella sagoma della “fede”. A quell’invenzione di comodo che molte religioni hanno imbandito per i boccaloni disperati. Del resto, compari proprio tu nella definizione cristiana del termine:
“ Est fides sperandarum substantia rerum, argumentum non apparentium: la fede è una via per sentire proprie in anticipo le cose che speriamo, e conoscere ciò che non vediamo.”.
Concetto ripreso poi dal fiorentino terracavista: “fede è sustanza di cose sperate e argomento delle non parvienti…”.
Due magnifiche motivazioni per sedersi e aspettare. Alla Chiesa non par vero. Qualsiasi sciocchezza che non si capisca ma che possa suscitare sospetti o condurre ad una valutazione critica della dottrina viene attribuita alla volontà di un incomprensibile disegno divino.
Dunque, o uomo, non tentare di capire: abbi fede!
Ti capitano le peggiori cose? Spera che passino e intanto, abbi fede! Si ammala un bambino innocente? Abbi fede! Intanto, se muore è per un imperscrutabile disegno della divina provvidenza, mentre se guarisce la medicina scientifica non c’entra niente. Si tratta di un miracolo, e per quello, si sa, non c’è che sperare e aver fede.
… E già che ci sei prega, ché non fa male. È un’altra attività di immobilismo assoluto, di rassegnata ignavia, ma intanto resti occupato e non fai danni (leggi “non ti fai strane domande”). Tra l’altro, per meglio pregare puoi andare in chiesa, dove trovi delle simpatiche cassettine per mettere i tuoi oboli. Perché si sa, una preghiera è sempre gradita, ma se accompagnata da una donazione vola più rapidamente al cielo.
Ed ecco, a proposito, quel volgere gli occhi in alto. La soluzione si aspetta dall’Empireo; come la manna, come la Madonna che sta sulle nuvole e ha un mantello azzurro e gli occhi verdi.

E dunque, o Speranza, sei in buona compagnia. Associata alla fede, assurgi addirittura al rango di virtù teologale.
Leggo in un compendio religioso quali sono i peccati contro le virtù teologali:
1) peccati contro la fede: dubbio, incredulità. Non bisogna avere dubbi: la madonnina di terracotta piange sangue profumato di bergamotto e tu, o uomo, devi crederci. Devi!
2) peccato contro la speranza: presunzione di salvarsi da sé. Non ci provare nemmeno. Se è scritto che non ti devi salvare è tutto inutile. Siediti e aspetta. Già che non fai niente, prega. Già che preghi, ricordati l’obolo. A salvataggio avvenuto, lascia un ex voto (gradito l’argento).
Hai capito, Speranza, perché ti ho sempre odiato?
Perché sono uno di quelli che non si è mai potuto permettere di fermarsi a guardare il cielo con le braccia spalancate. Perché tutto quello che ho ottenuto, poco o tanto che sia, l’ho raggiunto senza sperare niente e credendo solo nelle mie forze (grave peccato contro la speranza: crucifige!). Insomma, mi son fatto un “tulo tanto” (non si tratta di refuso di stampa e ho dovuto disattivare il correttore automatico).
Però, non temere, di fedelissimi e di seguaci non te ne mancheranno mai. Anzi, mano a mano che la disperazione aumenterà, e di motivi mi sembra in prospettiva ce ne siano molti, i tuoi sostenitori diventeranno schiere, e poi legioni. Tutti speranzosi, tutti con lo sguardo rivolto al cielo e la braccia pronte ad aprirsi.
In fondo, a stare con le mani in mano ad aspettare che le cose vadano meglio non si fa fatica.

E poi, vuoi mettere l’altro vantaggio? Procrastinare, procrastinare sempre. Ad libitum. Mai fare adesso quello che si può tentare domani. E domani, ripetere la cosa come un mantra. In fondo, “spero promitto e iuro vogliono l’infinito futuro”.