Alla difficile domanda risponde l’autrice dell’articolo rifacendosi alla triste esperienza in corso di una scrittrice nota per la sua ironia
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica
E’ difficile scrivere di speranza? Per chi come me, a dispetto delle apparenze, è in inguaribile ottimista – the best is yet to come, il meglio deve ancora venire, resta una delle mie frasi preferite- non dovrebbe esserlo troppo. Eppure mi sono trovata a corto di idee, fino a quando non sono inciampata nelle interviste a Sophie Kinsella. Una scrittrice che amo, nota soprattutto alle appassionate di quella che si chiama un po’ superficialmente chick lit, letteratura per ragazze. Sophie Kinsella, infatti – in realtà questo è lo pseudonimo con il quale è nota la scrittrice inglese Madeleine Wickham – è l’autrice di I love shopping, super best seller mondiale pubblicato in Italia da Mondadori ,e di altri nove romanzi che accompagnano la shopaholic Rebecca Bloomwood nel suo percorso esistenziale tra storie d’amore e problemi concreti sempre raccontati con una buona dose di ironia.

Cui si aggiunge, e non è poco per una donna che ha superato da poco la cinquantina, un‘altra ventina di opere tutte di grande successo, inclusi alcuni romanzi firmati con il suo vero nome.

Il tema oggi, però, non è l’ottimismo che sprizza dalle pagine dei suoi scritti, ma un evento ben più drammatico: nel 2022, dopo una serie di accertamenti che non riuscivano a venire a capo dei suoi malesseri, a Sophie Kinsella è stato diagnosticato un glioblastoma, un tumore al cervello particolarmente aggressivo per il quale le cure – chirurgia, chemio e radioterapia – difficilmente sono risolutive e la prognosi è sconfortante. Come ricordano, per rimanere nel mondo della finzione, quanti hanno seguito le vicende di Mark Greene in E.R Emergency Room.
Ma Kinsella è una persona vera, una signora chic che al suo primo arrivo a Milano, molti anni fa, ha chiesto come prima cosa dove trovare il negozio di Prada. E che oggi, nonostante le circostanze, dichiara ai giornali e ai suoi lettori che seguono la vicenda con angoscia di continuare a credere nel lieto fine. Quello che ha voluto regalare a Eve, la protagonista del suo romanzo Cosa si prova appena pubblicato in Italia da Mondadori: un’autrice di successo che si risveglia in un letto di ospedale e scopre che le hanno appena asportato un tumore al cervello. Le lettrici sono abituate a identificare Kinsella con storie che fanno sorridere e personaggi che affrontano i loro problemi con leggerezza, “ma questa è la mia storia”, spiega l’autrice, “Scrivere è il mio luogo felice e scrivere questo libro, attraverso molte lacrime e molte risate, è stato immensamente sodisfacente e terapeutico”. E anche se l’argomento è impegnativo e anche la forma narrativa – una serie di brevi capitoli per non affaticare troppo l’autrice- ricorda il dramma che Kinsella sta vivendo, questo libro riesce a far sorridere e a ispirare ottimismo. Certo, c’è la storia vera: la difficoltà di arrivare alla diagnosi, l’incredulità e il risveglio difficile dopo un’operazione chirurgica durata otto ore, che ha costretto l’autrice a imparare di nuovo a camminare e a scrivere e ha compromesso la sua memoria costringendola ad appoggiarsi al marito Henry, un compagno di università sposato nel 1991 da cui ha avuto cinque figli. “Da quando mi sono ammalata sono passata attraverso lo shock, la paura, un senso di lutto, di dolore. Ma sono anche stata travolta dall’amore”, racconta Kinsella; “mio marito ha abbandonato tutto per stare al mio fianco, con i miei figli ci abbracciamo continuamente. Poi ci sono i parenti, gli amici. E la risposta incredibile dei lettori che mi hanno inondata di messaggi d’affetto e di speranza, ma anche di storie positive: un’emozione immensa”. E anche ora, racconta “non riesco a dire come sto, è una situazione troppo grande, troppo complessa: ci sono giorni in cui piango e quelli in cui rido”.
Eppure, nonostante tutto l’autrice riesce a dire di avere avuto una vita incredibilmente fortunata. E di aver voluto un lieto fine – “quello almeno lo scelgo io”- per un romanzo che riesce a non essere deprimente nonostante il tema. E intanto Kinsella rimane concentrata nella quotidianità, in giornate che cominciano con il marito che le porta una tazza di tè e una storia che fa sperare bene: “ Mi dice ‘ ho letto di qualcuno che è vissuto davvero a lungo dopo la diagnosi’” dice Kinsella, “ Ed ecco, quello che vorrei un giorno è essere io, per qualcun altro, la storia che fa sperare”. Sono queste parole che mi hanno spinto a dedicare a Sophie Kinsella lo Stile over di ottobre.
Perché, in effetti, ci sono due tipi di speranza. Si può sperare in un lieto fine: io da inguaribile romantica lo faccio spesso, e una delle mie frasi preferite è una battuta del film Marigold Hotel “ Andrà tutto bene, alla fine, e se non va tutto bene è perché non è ancora la fine”. Ma si può anche sperare in qualcosa di buono che può emergere anche nelle giornate più nere. E forse è per questo che molti raccontano l’incontro per la malattia sottolineando come la brutta esperienza li abbia aiutati a vedere quanto c’è di bello nella vita, ad apprezzare piccole cose o a riscoprire passioni, o persone, a cui si stava rinunciando”: “Abbiamo imparato a trovare la gioia in ogni momento”, racconta Kinsella”. “Quello che davvero mi sento di dire a tutti è: godetevi la vita, indossate bei vestiti, andate alle feste, viaggiate, state vicini alle persone che amate perché nessuno di noi sa che cosa accadrà domani”.

E proprio mentre scrivevo le ultime parole di quest’articolo mi è passata davanti la copertina che Vanity Fair dedica a Eleonora Giorgi, anche lei in lotta con un tumore difficile da sconfiggere; l’articolo è dedicato a “Il tempo che resta”: “ Non importa quanto ne hai “, c’è scritto “ ma come lo spendi”.