Con l’età che avanza ripetere quotidianamente alcuni gesti è forse illudersi di rallentare il tempo
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico

Da sempre mi affeziono alle cose. Non mi importa se son nuove o che possano invecchiare. Da ragazzo qualcosa che non era mainstream la sentivo più adatta a me. Per dire, frugavo nell’armadio e, se mi stava di taglia, mi piaceva indossare come fosse mia la giacca di mio papà di quando era giovane. Se la cosa cui tenevo si rompeva me ne rammaricavo. Se funzionava male la sostituivo, senza indulgere in particolari procedure di manutenzione. Troppo frettolosamente. Ora mi accorgo che anche in questo sono diventato diverso.
Ho un paio di occhiali tondi, alla Benjamin. Di metallo, sottili. Mi piacciono tanto. Non sono di marca. Sono fragili. Li uso quasi solamente a casa. Anche la sera, a letto, per leggere. Il giorno, quando non ne ho bisogno li alzo sulla fronte. Questa abitudine ha infastidito la stanghetta di destra che patisce la manovra e necessita perciò di una frequente attenzione. Le due viti, la prima che serra la lente, l’altra che blocca la stanghetta impedendogli di basculare in orizzontale nel suo alloggiamento, allentate dalle sollecitazioni improprie, devono essere riavvitate almeno una volta al giorno. Sono minuscole e per farlo devo mettermi l’altro paio di occhiali. Avevo un piccolo cacciavite a taglio che ben funzionava per serrarle, ma l’ho perso.
Il fatto che questi occhiali necessitino di un mio quotidiano intervento per registrare le viti mi piace, perché mi dà l’idea di una reciprocità: io ho bisogno delle lenti, e gli occhiali, per soddisfare la mia necessità, hanno bisogno di me. Questa fantasia me li fa sentire più miei e non estranei come una accadrebbe con una montatura nuova, che sul naso sarebbe certamente più stabile, ma si configurerebbe come un’estranea.
Per stringere le due viti uso la punta del coltello che usava come posata prediletta la mia bisnonna Giuditta. Una lama sinuosa saldata al manico – ormai bruniti entrambi. Il manico è di un argento scuro levigatissimo dall’uso. La lama, che uso come tagliacarte e me la godo quando ho libri intonsi le cui pagine vanno separati, man mano che si procede nella lettura (quelli editi da “Italo Svevo”, ad esempio) la lama è ancora affilata e finisce con una punta perfetta per il taglio che hanno le piccole viti che s’allentano.
Le due cose, di per sé banali al limite dell’ozioso, imponendo una routine ulteriore– sarebbe sufficiente non incaponirsi nel voler usare questa montatura di occhiali che s’allenta così di frequente sostituendola, o almeno decidere di acquistare un cacciavite, attrezzo più funzionale ed efficace perché stringer viti è ciò per cui è stato pensato ed è impiegato- le due cose son diventate scansioni di gesti quotidiani rituali che mi danno la sensazione di riuscire di più ad appropriarmi delle cose, connettendole a me per “ripararle”, proteggerle dal tempo, dall’oblio, dalla irrilevanza, dal buio giacere in un cassetto. In questa maniera contribuisco al disporsi su di esse non solo della patina del Tempo, ma anche quella del mio tempo. Una cura che me le fa sentire più mie – anche perché solo io le impiego così.
Credo sia un po’ una fisima connessa all’età. Mi accorgo che cerco, senza riuscirci, modi per rallentare il trascorrere del tempo. Artifici che sostengano questo desiderio illusorio, facendo leva sull’attenzione da prestare alla durata che impongono e provando a metterci qualcosa di mio. Uso solo penne stilografiche a stantuffo. Scrivo spesso utilizzando la matita e cancellando con la gomma, se devo correggere. Per fotografare impiego solo apparecchi a pellicola.
Ho da non molto rimesso in uso l’orologio di mio nonno, che ora tengo sempre al polso. Non è pregiato. Non ha il datario. Non è impermeabile. Non è automatico. Mi obbliga perciò a fare attenzione al giorno che è; a togliermelo prima della doccia perché non si bagni; a proteggerlo non perché sia di valore, ma solo per preservarne la funzionalità che mi riconnette alla memoria; a caricarlo quotidianamente portando avanti e indietro con indice e pollice la corona per predisporre la molla al funzionamento del bilanciere.
Questa carica della corona che vedevo fare a mio nonno -lui capace di non dimenticarsene mai e di cadenzarla ogni giorno alla stessa ora, io invece molto più disordinato, come fossi un dilettante della quotidianità- mi appare segno di saggia consapevolezza che il tempo che passa noi possiamo solo misurarlo nella sua fuga.
Avanti e indietro con la corona tra le dita: un atto quotidiano necessario sia perché l’orologio non si fermi, sia per potermi orientare di giorno e di notte rispetto a me e rispetto agli altri. Dare la carica – che per me dovrebbe essere soddisfazione rassicurante di una routine di cui vorrei dotarmi- produce un caratteristico suono assimilabile al frinire metallico di un grillo artificiale, grillo parlante che con schietta autenticità mi ricorda che un altro giorno è ormai trascorso.