In un Convegno a Torino una riflessione sulla relazione medico – paziente
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

A noi “Over” succede spesso di ricordare con nostalgia i medici di una volta: non tutti, certo, ma quelli che si fermavano a parlare e ad ascoltare, e che ti facevano sentire meglio solo mettendoti una mano sulla fronte. Un modo di fare che è sparito, perché spesso gli indubbi progressi della medicina non si accompagnano a un miglioramento nella relazione tra sanitari e pazienti, e in chi deve affrontare un ricovero o una visita specialistica resta il dubbio di essere stato trattato solo come un caso clinico, e non come una persona con la propria storia e le proprie esigenze.
Per fortuna le cose non vanno sempre così: un bell’esempio di come può essere la medicina viene dal Convegno dedicato qualche giorno fa a Torino a “Storie slow per una cura sobria e rispettosa”. Una giornata densa di relazioni e spunti organizzata da Slow medicine, l’associazione che si batte “per una medicina sobria rispettosa e giusta” con l’obiettivo, come afferma il presidente dell’associazione Marco Bobbio, di “diffondere una cultura della cura”.
A far da traccia dei lavori e dei diversi temi affrontati sono state le Storie Slow che si trovano nel sito dell’associazione (https://www.slowmedicine.it/storie-slow/ ),testimonianze di sanitari pazienti e caregiver – chi scrive ne ha firmate un paio – sull’importanza di cercare in ogni situazione la soluzione migliore, la più adeguata in quel momento e per quel paziente.
E’ stato il cardiologo Alfredo Zuppiroli a ricordare come lo stesso David L. Sackett, ideatore della Evidence Based Medicine o medicina basata sulle prove – il fondamento della medicina scientifica – metta al centro del metodo, a fianco dell’esperienza clinica e della letteratura scientifica, i valori e le credenze del paziente: “Troppo spesso dimentichiamo che l’oggetto della medicina è la persona”, sottolinea lo specialista.

Lo ricordano le Storie Slow presentate nel corso dell’incontro, che hanno aperto riflessioni importanti sulla necessità di un ascolto che non è solo un segno di rispetto nei confronti del paziente ma uno strumento diagnostico efficace. Ma anche sui casi frequenti in cui fare di più non significa fare meglio e soprattutto non rispetta i desideri del paziente, e sull’importanza del tempo dedicato alla relazione – non necessariamente tempo cronologico, che è sempre meno – nell’ambito della cura. A volte l’atteggiamento o un gesto bastano a cambiare la modalità di relazione: l’hanno ricordato i pazienti intervenuti al convegno come Alfonso Ziccardi, che ha raccontato la sua esperienza col trapianto di cuore, e la scrittrice Luisa Benetti: il paziente è allettato, in posizione di vulnerabilità di fronte a chi entra nella sua stanza a volte senza spiegare cosa sta per fare”, spiega Benetti, “essere chiamati per nome, sapere chi abbiamo di fronte e perché, può fare la differenza”.
A questo mira il progetto “Buongiorno io sono”, promosso da Slow Medicine in linea con l’analoga iniziativa britannica che chiede ai sanitari di presentarsi col proprio nome, cui è stata dedicata una sessione del convegno. Una sperimentazione avviata tra gli studenti del corso di laurea in infermieristica di Orbassano durante la pandemia, per superare le difficoltà nate con la mascherina grazie a un cartellino con il nome e l’avatar, mostra come questo serva a migliorare non solo il contatto con i pazienti ma anche quello con docenti e tutor. E si è parlato anche dei corsi di infermieristica teatrale, che aiutano gli studenti che partecipano alternativamente come attori e spettatori a comprendere e gestire le emozioni vissute.
“Chi lavora a contatto col pubblico, e in particolare i medici”, spiega la linguista Lucia Fontanella, “deve imparare a osservarsi mentre parla per capire quale effetto facciano le proprie parole”. E prestare attenzione a quelle che i ricercatori americani – in un articolo pubblicato nel 2024 dalla Mayo Clinic -definiscono Never-words, le parole che non si dovrebbero mai dire a un paziente colpito da una malattia grave, come “ ha aspettato troppo”, o “ lei è fortunato perché la sua malattia è a uno stadio inziale”. Così com’è importante, ricorda Silvana Quadrino, psicoterapeuta e docente di comunicazione, che i sanitari – medici e infermieri- imparino ad ascoltare davvero, sapendo che qualunque comunicazione è filtrata dalle convinzioni del paziente e dalle informazioni di cui è in possesso: “La medicina narrativa è una metodologia che bisogna imparare ad usare”, sintetizza Quadrino, “ e gli strumenti principali per costruire una relazione terapeutica sono le domande e l’ascolto” .