Una storia vera di cura e di rinascita
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

E’ stato un caso che mi ha fatto incontrare, proprio alla vigilia delle celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della Liberazione, questo romanzo di Titti Marrone- Se solo il mio cuore fosse pietra, Universale Economica Feltrinelli 2025 pag. 237, € 11- dedicato allo straordinario esperimento pedagogico creato per aiutare i bambini usciti dai lager a ritrovare una parvenza di normalità. Avevo letto da poco l’ultimo, bellissimo romanzo di Marrone, Primammore, sempre pubblicato da Feltrinelli, in cui una tragica vicenda di cronaca fa da spunto per le vicende personali dell’autrice e della sua generazione.

Quando poi mi sono imbattuta nell’edizione economica di Se solo il mio cuore fosse pietra, non ho resistito. E ho fatto bene: mi sento di usare per questo libro un’espressione cara ai miei genitori, che ho sempre trovato un po’ eccessiva: “E un libro importante”. Lo è davvero, perché racconta la storia dei bambini di Lingfield, un gruppo di 25 tra bambini bambine e ragazzi sfuggiti all’Olocausto che nel 1945 furono accolti in una grande villa inglese trasformata in centro di accoglienza da un’équipe di psicoanaliste e pedagogiste guidate da Alice Goldberger, con il supporto e la collaborazione di Anna Freud, la figlia del fondatore della psicoanalisi. Obiettivo del progetto: prendersi cura di loro aiutandoli, per quanto possibile, a superare i traumi vissuti nei lager, nell’abbandono o nell’isolamento dei nascondigli escogitati per salvarsi.

Una storia tremenda in cui l’autrice ci accompagna con delicatezza, come fa in Primammore, consentendo alle testimoni del dramma di esprimere per noi le emozioni che è impossibile non provare scorrendo queste pagine. Che raccontano con precisione documentaria la difficoltà di gestire bambini traumatizzati, diffidenti nei confronti degli adulti da cui si aspettano solo inganno e sofferenze. E incapaci, almeno all’inizio, di sentirsi a proprio agio nella situazione di normalità creata per loro con lettini confortevoli, giocatoli, cibo gustoso e abbondante preparato dalla cuoca infermiera Sophie, uno dei tanti personaggi indimenticabili di questo racconto. Così come è impossibile togliersi dalla mente i bambini del cucchiaio, i più piccoli, provenienti da Terezin e a lungo incapaci di allontanarsi gli uni dagli altri, rinunciando all’unica relazione umana che avevano conosciuto. Ma anche gli altri, che nonostante l’impegno di Alice e delle sue collaboratrici continuano a nascondere il pane, a temere che il cibo che è loro offerto sia avvelenato e a reagire con terrore alla vista di una doccia. Accantonando per un momento le emozioni, c’è da dire che questo libro, anche grazie ai dialoghi tra Alice e Anna Freud, è una testimonianza preziosa sulle origini della psicoanalisi infantile e, più in generale, delle conoscenze che oggi abbiamo sullo sviluppo della mente e sull’importanza della socialità. Ma è impossibile non ammirare la sensibilità e l’empatia con cui Goldberger e le sue aiutanti hanno saputo affrontare situazioni apparentemente ingestibili: dalla rabbia dei bambini, espressa spesso attraverso la violenza, alla drammaticità delle storie che piano piano sono emerse dai loro racconti, tra cui quelle di alcuni genitori ritrovati che non sono riusciti a riallacciare il rapporto con i figli. Una difficoltà che ha segnato anche i tentativi di adozione dei bambini rimasti soli, non sempre destinati a un esito positivo, anche per l’atteggiamento superficiale di quanti da queste creature così fragili si aspettavano solo gratitudine e sorrisi.
Ma accanto a tutto questo ci sono i piccoli miracoli di normalità riconquistata che Alice Goldberger riferisce con commozione, i sorrisi, l’interesse per la musica o per la natura, l’atteggiamento protettivo di molti bambini nei confronti dei compagni più piccoli e la capacità di costruire – anche grazie al rapido apprendimento della lingua inglese come comune strumento di comunicazione – un gruppo coeso. A fare da filo conduttore alla storia c’è una vicenda che ci riguarda da vicino, già raccontata da Marrone nel saggio Meglio non sapere. Tre bambini nella Shoà (Feltrinelli 2023): la storia di due bambine italiane accolte a Lingfield, Tatiana e Andra Bucci, e del loro cuginetto Sergio De Simone che avrebbe potuto essere uno dei piccoli ospiti ma non arrivò mai in Inghilterra perché fu vittima di orribili sperimentazioni in un lager e infine ucciso.

Il racconto ci accompagna per oltre un decennio, fino alla conclusione dell’esperienza di Lingfield, seguendo i piccoli ospiti, ormai giovani uomini e donne, nella lenta elaborazione di parte del trauma e poi nelle loro seconde vite, presso il nucleo familiare ritrovato dopo lunghe e prudenti ricerche, in famiglie adottive, o per molti in Palestina. Scopriamo così che molti di loro hanno scelto di cancellare il ricordo dell’esperienza di Lingfield assieme ai ricordi traumatici che inevitabilmente si portava dietro. Anche se nelle ultime pagine il gesto affettuoso di uno dei bambini ormai adulto nei confronti di Alice è un abbraccio che testimonia meglio delle parole l’importanza di questa esperienza non molto nota che il libro ci permette di conoscere.