Un caso clinico natalizio: Scrooge e la medicina dell’empatia

Perché “Canto di Natale” di Dickens può diventare un trattato di medicina umana

Di  Edoardo Rosati – giornalista medico-  scientifico

Sì, lo so. Mi accuserete di deformazione professionale, provenendo io dal giornalismo medico-scientifico, però, ecco: oggettivamente ho sempre visto Canto di Natale di Charles Dickens come una vera e propria case history da manuale. Una di quelle che farebbero alzare un sopracciglio a qualsiasi medico, strappandogli magari un commento del tipo: «Mmm… In effetti, qui c’è materiale interessante!». E ogni dicembre, quando risfoglio le pagine di quel gioiellino letterario, ho puntualmente la sensazione di seguire la progressione di un caso complicato, apparentemente senza speranza, e poi assistere a una guarigione che nulla ha di miracoloso, e proprio per questo è così straordinaria.

Ebenezer Scrooge, il paziente zero della più antica epidemia morale mai narrata, entra in scena con tutti i segni di una patologia avanzata: isolamento cronico, atrofia dell’empatia, tachicardia da profitto, allergia alle relazioni sociali. Le sue cellule hanno azzittito, uno a uno, tutti i recettori della gentilezza. Non prova affetto per nessuno, non lascia che qualcuno gli si avvicini davvero e tratta i rapporti umani come potenziali infezioni da cui tenersi alla larga con scrupolo maniacale. Un paziente critico, insomma, che si appalesa in triage con un inequivocabile codice rosso. È un corpo che cammina, ma un’anima che da tempo ha smesso di rispondere agli stimoli. Dickens lo osserva con l’occhio clinico (giustappunto!) di chi conosce bene la miseria dell’essere umano e sa che, dietro una certa sintomatologia, si nasconde una sofferenza più profonda di quanto appaia. Con lucidità quasi diagnostica, ci mostra che questa “malattia” non è scaturita dal nulla, ma è frutto di traumi sedimentati, di abitudini tossiche, di una lunga esposizione a un ambiente emotivamente ostile. Scrooge non sa, o non vuole sapere, di essere malato. Come molti pazienti reali, non riconosce i segnali. «Sto bene così», afferma chi si abitua alla propria sofferenza.

E poi ─ come in ogni emergenza che si rispetti ─ arrivano loro: gli spiriti, un’équipe di specialisti un po’ eccentrici, ma straordinariamente efficaci. Tre figure che, in un ospedale, collocheremmo tra psicoterapeuti, cardiologi dell’anima e chirurghi del destino. Uno dopo l’altro, si avvicendano nella stanza di Scrooge e dischiudono fascicoli sanitari che l’anziano paziente non sapeva affatto di possedere: ferite infantili mai rimarginate, tessuti cicatriziali intrisi di rimpianti, pezzi di cuore sofferenti di fronte alle possibilità perdute. 

Il Passato è l’anamnesi che ogni paziente vorrebbe schivare, perché impone di rispolverare la più delicata delle fasi esistenziali: quella dell’infanzia e della giovinezza. Segnate, nel caso di Scrooge, dalla solitudine in collegio e dalla decisione della fidanzata di abbandonarlo (comprendendo che l’amore di Ebenezer per il denaro ha ormai soppiantato quello per lei). Il Presente è un monitor multiparametrico che mostra, senza pietà, quanto può essere vivo il mondo che ti ostini a ignorare. Scrooge scopre che cosa accade fuori dalla sua bolla sterile: famiglie che, pur avendo poco, riescono a scaldarsi di molto; persone che affrontano la povertà ma trovano comunque un modo per onorare il Natale con dignità; bambini fragili che vivono ogni giorno con una diagnosi sospesa tra speranza e paura. Il Presente sciorina davanti al paziente quell’immensa rete di connessioni umane di cui Scrooge si è sempre tenuto alla larga. È la parte della visita in cui il medico ti dice: «Guardi che sta succedendo al suo corpo, alla sua vita, mentre lei non sta osservando!». Il terzo specialista, il Futuro, è la prognosi in persona.
Non parla, non consola, non edulcora. Certifica. E lo scenario ultimo potrebbe rivelarsi purtroppo infausto…

Ora, non chiamereste questo articolato gioco di squadra, come nei migliori casi clinici, un intervento multidisciplinare d’urgenza?

A quel punto, Scrooge non può più ritrarsi e ricusare. Quella notte diventa una lunga sessione terapeutica che tenta di ricucire il tessuto necrotico della sua coscienza. Dickens ripartisce la somministrazione delle emozioni con precisione quasi farmacologica: prima una dose di richiamo nostalgico, poi la pressione crescente delle responsabilità, infine un’iniezione controllata di ansia.

E allora succede qualcosa. Quando Scrooge si risveglia, Dickens ci regala in pratica una delle scene clinicamente più commoventi della letteratura. È il paziente che riemerge dal tunnel della terapia intensiva e riscopre il mondo con occhi nuovi, come se fosse la prima volta. Sente di nuovo la temperatura confortante delle cose quotidiane e riconosce il valore di un gesto, di un sorriso, di un bambino che gioisce. La sua, per capirsi, è una risposta clinica completa.

E allora, sì, concedetemi l’occhiolino professionale: Canto di Natale somiglia davvero a un trattato di medicina umana. È la storia di una cura che Dickens ha somministrato al suo protagonista e, in fondo, a ciascuno di noi. Un iter terapeutico che non si basa sui medicinali, ma sulla capacità ─ tutta umana ─ di cambiare realmente. Un vaccino anti-indifferenza, un antibiotico contro il cinismo, un integratore di speranza. E ogni volta che rileggo questa novella, mi ritrovo a pensare che sì, forse non è poi soltanto deformazione professionale…

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