Franco e la piazza

Questa è una lettura per ogni stagione. Ma d’estate la si può assaporare meglio, proprio come i frutti di cui si parla

Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico

Incontro Franco in piazza. Stava parlando con Gualtiera, che disponeva sul pianale della sua Ape le cassette di frutta e verdura. “Ci mancava la nevicata tarda. M’ha bruciato tutte le albicocche”, mi dice e mi fa ricordare della neve della tarda primavera 2020 appena trascorsa. Oramai sono solo loro due che vengono un paio di volte a settimana a onorare quello che sta scritto sulla targa che dà il nome alla piazza. Piazza del mercato. Ma il mercato è ormai altrove – fuori le mura, con un cortocircuito di segni che dovrebbe far riflettere. Sorte comune a molte cittadine dell’appennino che faticano a mantenere popolazione e identità, anche se storicamente costituiscono l’ossatura concettuale dell’italianità: la città medio-piccola di cui parlava Cattaneo. Già, Cattaneo, ma chi lo legge più? E chi ci abita più qui, dove tra terremoto, recessione, calo demografico e ora anche Covid … si rischia di abitare un museo a cielo aperto in cui chi dimora in centro storico non ha neanche il privilegio che di una struttura museale il “custode” detiene: quello di avere le chiavi per aprire e chiudere.

Ma ritrovare qui Franco e Gualtiera mi dà la cifra del lockdown finito, della piazza che si rianima. Con loro c’è anche Serafino, gran maestro officiante il rito della porchetta in quel di Spoleto. Serafino e Gualtiera sono altri due capitoli di quel testo che è la piazza, e che proseguirò a raccontare.

“Pensavo a te”- mi dice Franco che è salito oggi in piazza solo per guardarsi intorno, per prendere le misure quasi, senza la sua frutta e verdura da vendere. Da lui compro con piacere. verdure, erbe selvatiche, fichi –che faccio sciroppati con zucchero e aceto e gusto con stracchino o squacquerone; marasche che come le visciole faccio al sole (in barattoli chiuse con lo zucchero, s’arricchiscono di sciroppo e poi con ricotta salata raccontano calore e del colore dell’estate tutto l’anno); alcune antiche varietà di mele; ciliegie, incluse certe ciliegie gialle che solo da Franco trovo e di cui son ghiotto. Gli chiedo subito se ha marasche e ciliegie gialle. “Marasche si, ciliegie no,  né rosse né gialle” mi dice  deluso e amareggiato. “Dai, vengo a casa da te a prenderle”, gli dico. La strada la so e ho piacere di andarlo a trovare. E’ persona che stimo e ammiro. Quello che fa lo fa con amore e passione, fedele al luogo in cui vive, Morgnano dove ha la terra che coltiva, Spoleto dove la propone venendo in piazza per restare prossimo a suo padre, che qui veniva con la sua merce.

Piazza del Mercato, Spoleto

Quello che compro in piazza (qui e in situazioni simili, come scrivevo di Pino e delle sue merendelle) lo associo al modo migliore e più completo di partecipare alla vita del luogo, conoscere la mia terra, il posto che abito. San Tommaso d’Aquino affermava che ogni conoscenza inizia da un’ esperienza sensibile, esperienza sostanziale di anima e corpo. E cosa è allora gustare con attenzione la biodiversità, usando la bocca per assaggiare e per dire, interloquire nei dialoghi che accadono qui in piazza, se non conoscere? Amore e curiosità per il mondo e per l’esistenza. Amore per una piazza che reca segni immateriali e memorie che attendono di esser raccolte.

Ho traccia della prima volta che son stato da Franco e quella giornata, quel pomeriggio di un paio fa. Iniziava così.

“Non ti puoi perdere”,  mi fa, insistendo nel fornirmi l’ulteriore specifica di indicazioni che gli ho chiesto. “Se vieni mi fa piacere che vedi dove sto”. Si gira da dietro la stadera, appoggiata su un cumulo di buste di carta paglia marrone, tira fuori un foglietto bianchiccio pieno di conteggi. Sono somme. E tra i numeri disegna come un serpente, rallentando e accelerando il tratto della penna nelle diverse curve che si succedono, segnando con delle linee dritte le traverse che mi devono servire da indicazione per orientarmi nel tragitto, ma che non debbo prendere. “Tu arrivi a Morgnano –indica sulla carta- qui si va per le miniere. Tu invece prosegui e sali. C’è una curva –e calca la voce come assecondando la piegatura del tracciato. “Poi c’è una curva dall’altra parte e prosegui. Lì sopra ci sono delle case con degli alberi, ma io non sto lì. Tu fai tutta la curva dopo, e poi l’altra in senso inverso: dove ci stanno quelle casette c’è una stradina bianca che non sembra porti a nulla. Tu la pigli, che io sto lì dentro. Vieni quando ti pare. Tanto io sto magari nell’orto o nel campo, a lavorare”.

Va bene dopo le cinque e mezza?

“Tu vieni, non ci stanno problemi. Mi fai piacere se passi e ti fermi un po’, che così vedi raccogli e assaggi. Ce ne stanno così tanti che non ce la faccio a cojerli – mi dice dandomi il chilo e mezzo di fichi neri e chiari che mi ha scelto dalle sue cassette. “Mangia, che fai complimenti? Mangia una fica, dai…“. Ne son ghiotto, e accetto.

Intanto mi offre e mi pressa e mi blandisce, con l’orgoglio di chi propone in semplicità i frutti (buoni) del proprio lavoro. Ci impiego poco e nel tempo delle residue finali chiacchiere “le fiche” mangiate con la buccia diventano una decina –scelti uno ad uno da lui. “Mangia questo, vedi che ha le spaccature -la buccia spaccata dall’irruenza zuccherina dall’interno- “hanno la lacrima questi”- nella parte inferiore una goccia di zucchero trasparente inumidisce l’accesso all’infruttescenza umida e rossa. “Mangiali con la buccia…”. Bè, è Franco la persona che mi ha insegnato a mangiare i fichi con la buccia. Buoni. Più… completi.

“Adesso hai fatto colazione, no?”, mi fa ridendo soddisfatto, mentre mi allontano salutandolo.

Franco è piccolo, minuto. Alcuni lo chiamano con il nome del padre che ormai sono credo 8 anni che non c’è più, ma tutti si ricordano di quel vecchietto novantenne che si chiamava Fiore e ha insegnato al figlio l’amore per la terra e il modo per aderire alle cose. Franco è semplice, ma solo perché non cerca orpelli e svolazzi. Essenziale e consapevole. Le lodi le riserva solo al miracolo della natura, che fa crescere e maturare quello che lui semina, alleva e raccoglie. I suoi prodotti li popone nelle otto, massimo nove, cassette che dispone attorno a sé  su dei cavalletti di legno tracciando una L, cui aggiunge, per chiudere il terzo lato mancante dell’immaginario bancone dietro al quale si colloca, il bagagliaio aperto della Panda bianca con il sedile abbassato. Frutta, ortaggi, il sabato coppie di piccioncini.  Quando è stagione porta anche prodotti spontanei come gli strigoli. Le erbe aromatiche, le uova ci sono sempre. Pesa tutto con la stadera. E poi in busta aggiunge dell’altro. Sorride, sorride sempre. Soddisfatto di una vita di cui è padrone, nelle sofferenze, nelle gioie e nelle emozioni. Piccolo, è piccolo – ma si vede che è fatto di muscoli – è il lavoro fisico, la fatica a mantenerlo in forma –anche se gli anni non mancano. “Mica lo so quanto duro ancora a lavorare così, mi sa che è ora che smetta”, dice ammiccando, sperando se non addirittura provocando in me un sincero “macché.. ancora c’è forza voglia e passione.. si vede e mi dica se mi sbaglio”.

Succede sempre così, che io rispondo in questo modo convinto e sorrido felice al suo sorriso grato per quello che ho detto –anche se forse è quello che voleva sentirsi dire. Così si allarga e distende il suo sorriso e un po’ arrossisce.  “Come vuoi che sto … sto in piedi e…e siccome ci vediamo significa che ce stamo, quindi non ci lamentiamo che se fa peccato”, risponde al mio saluto, se è un po’ che non ci si vede. Le rughe- un po’ del sole, un po’ dell’età, un po’ dell’espressione – sono il segno che il tempo gli ha lasciato, a impreziosire movenze fatte di mitezza.

Certe volte scoraggia i clienti, se la merce restata non è a suo modo di vedere come dovrebbe essere se fosse lui a doverla comprare. Altre volte invece insiste, anche se l’aspetto è brutto. “Tu prendi queste pere, quando le apri dentro, al centro sono nere, ma tu togli il torso e poi me dici che te magni. Dolcissime. Le do agli amici, a quelli che lo possono capire e apprezzare. Gli altri le aprono, vedono nero, non assaggiano, le buttano e se vengono a lamentà. E son così buone…basterebbe assaggiarle… ma che je dici…”.

Torno a oggi. Quest’anno strano niente fave, pochissime ciliegie, un albero pieno di marasche. “Guarda – mi dice Franco dandomi la cassetta con i frutti rossi e aciduli che ha raccolto per me -poi facciamo il giro”. Uva, ma quest’anno poca ne verrà. Frutta quasi niente. Ortaggi e insalate, ho piovuto troppo poco. I piantoni promettono ma chissà se manterranno – da noi i piantoni sono gli ulivi – poi un campo di grano che arriva fino alle pendici della collina di fronte. “La vedi? È fatta con la terra che hanno scavato dalle miniere, quando c’erano. Guarda quanto è grande”. Vero, incredibile, sembra. Ora le miniere sono un museo.

Accade così che qualcuno parli di rigenerazione urbana per un processo di tassidermizzazione della vita, rendere un museo un luogo dove la gente ha vissuto, lavorato e anche è morta (destino che è simile alla gentrificazione dei centri storici. Sia detto en passant: il concetto stesso di centro storico è un mito incapacitante e una trappola concettuale per chi ci vive). Ma è pur vero che le miniere dal 1881 al 1961 hanno lavorato tantissimo, motore del progresso che s’identifica con l’industria pesante e un presente di aspettative e prospettive magnifiche e progressive. “Mia madre e mio padre non hai idea di quanti cesti di fichi vendevano al cambio di turno”, racconta Franco con l’orgoglio di esser stato parte di una stagione storica, di un epoca, quando più volte al giorno da sottoterra i minatori salivano su dall’ amaro del buio e delle fatiche, assetati di freschezza, di luce e di dolce ristoro. Ma la parola stessa “epoca” suggerisce la discontinuità rispetto al continuum del fluire degli eventi: l’epoca ha un inizio e una fine.

Una foto d’epoca delle miniere

Con la lignite di queste miniere e la corrente idroelettrica generata dal fiume Nera Terni ha potuto avere e alimentare le sue acciaierie e Spoleto ha avuto tra le prime città illuminazione elettrica pubblica. Adesso si parla di lampioni intelligenti, che si accendono solo quando qualcuno vi transita in prossimità. Ora anche gli acciai speciali di Terni sono in crisi. Industria pesante, le acciaierie, in cui numerosi sono gli operai morti, e lo stesso – ma siamo nel 1955 – accadde a Morgnano dove 23 minatori persero la vita.

“Io non ci sono riuscito, ma ci ho provato quattro volte”, mi dice Franco, riferendosi agli incidenti che ha rischiato se lo portassero via. Sì, perché lui era un saldatore davvero bravo. Appena finito il servizio militare ha iniziato subito a lavorare. “Lavoravamo a Taranto, alle acciaierie, quando si costruiva…”, ricorda con orgoglio, oggi che coltiva questa terra. In realtà lui ha coltivato sempre, stando vicino a suo padre Fiore, il cui sedile ancora giace riverso, inutilizzato e vuoto, nella parte di terreno vicino agli ulivi. “Mi offrirono una paga da sogno per lavorare in Francia, ero bravo e sarei stato parte di una squadra che doveva andare a Lione. Ebbi pochissimo tempo per pensarci. Me parlai a mio padre. Lui mi dissuase. Ho fatto bene?”

Mi piace pensare che quando stava a Taranto fosse il 1971, perché sarebbe curiosa e densa di significati la coincidenza: in quell’anno un altro spoletino va a Taranto, si chiamava Walter Tobagi. Tobagi è ricordato perché ucciso dalle BR. Ma non è solo quel coraggio delle idee a sollecitare la memoria di un grande giornalista, quanto –e soprattutto- l’acutezza nel cogliere processi che nella loro genesi e conseguenze possono esser visti e raccontati in maniera differenza, se solo si ha la sensibilità di accorgersene. Tobagi l’aveva. Tobagi era andato inviato dal Corriere della Sera e conia in un reportage memorabile l’espressione “metalmezzadro”. Tute blu che mantengono il legame con la terra – è stato detto. “È metalmeccanico, lavora nello stabilimento Italsider. Abita nei paesi della provincia e trova il tempo per coltivare il pezzo di terra”, scriveva Tobagi. “Su trentamila stipendiati della più grande industria del Sud, almeno la metà appartiene alla categoria dei metalmezzadri. E sono loro che hanno reso “ricchi” comuni di antica miseria “. Operai in fabbrica, contadini a casa. Ma non è solo Taranto, è Italia che gente come Walter e Franco hanno scritto e descritto – senza conoscersi.

Costituiscono il patrimonio e i segni di una generazione di cerniera che ha animato questa nazione e su cui non si è riflettuto abbastanza –e la loro testimonianza, con l’analisi delle biografie (microstorie) va ascoltata e ancora compresa – prima di entusiasmarsi a discorsi modaioli sui limiti dello sviluppo. Sono stati gli ultimi a godere di uno spazio adeguato per l’esperienza e a vivere prima che s’abbassasse l’orizzonte delle attese. In qualche modo hanno abitato la modernità senza perdere la possibilità di immaginare altro – anzi, mantenendo un sano dubbio e un legame con l’antico. “Se avessi scelto diversamente? Se fossi andato a lavorare in Francia? Comunque così ho cresciuto una famiglia e ora ho dei nipoti… qui sto bene, non mi manca nulla, ho tanto da fare” mi dice. Sul volto di Franco è stampato uno sguardo stupito e incantato, ingenuo nonostante l’età – ecco: guarda candidamente al suo mondo, in modo autentico e vero, capace di apprezzarlo per come è, felice di ciò che ha, anche se la domanda resta, senza però mutare in rimpianto.

Sono ammirato del suo dubbio, perché se da un lato manifesta soddisfazione, dall’altro palesa curiosità. E questo è vita, sintomo di vivacità intellettuale, perché dà conto della forza delle cose, ma anche della possibilità di un altro destino. Certo, insondabile – perché manca la prova sperimentale di ciò che di diverso sarebbe potuto essere, Ma da questa insondabilità che nasce dall’esser curioso, deriva l’opposizione nei confronti di ogni forma di banalizzazione dell’esistenza e il rifiuto di appiattirsi su di essa. La porta resta aperta, anche se la soglia non è varcata. Certo, varcarla avrebbe significato un mutamento di direzione, cosa affatto facile. “Ho fatto bene ad accettare di lavorare qui vicino, senza andare in Francia ed esser pagato molto, molto di meno? Mio papà mi diceva: ma dove te ne vai? E poi quando la Saffa è entrata in crisi (una fabbrica qua vicino) ho lavorato tutto il tempo qui con lui. Lui si sedeva su quello sgabello e mi guardava fare, quando ormai vecchio non ce la faceva più”.  Mi fa vedere lo sgabello e mi mostra tutti gli innesti andati a buon fine sugli alberi che ha fatto suo padre. Li ricorda tutti, uno per uno…

Certo che da solo lavorare tutta questa terra…. “Non ti aiuta nessuno?”, gli chiedo. “No”, mi dice. Non c’è nessuno che l’aiuta, che possa poi proseguire dopo di lui. “Son da solo. Mio figlio, lui ha voluto fare l’avvocato”, ma è quasi, forse incerto se questa sia una cosa bella, di cui rallegrarsi. Difficile da dire, dipende dal punto di vista da cui la si considera. “Mia moglie non aiuta me, ma lui e gli risponde al telefono e fa un po’ come da segretaria…”.

La vita vissuta si compie. Io non son capce di far bilanci. Ho le mie cose quasi tutte in perdita, ma son curioso anche degli altri, di come si regolano dovessero mai far un bilancio con partita doppia.

Come si fa ad apprendere la lezione della cose della vita? Thomas Mann diceva che siamo dilettanti della vita, non professionisti. Non c’è un tirocinio mediante cui apprendere, né alcun esperimento effettuabile. Tragicamente ogni esperienza di vita rimane incompiuta, rispetto a ciò che ci avrebbe forse reso diversi. Ma noi, noi ora come siamo?

Torno più vicino – ma non per questo meno lontano dai dubbi circa le modalità di come si possa diventare ciò che si è – purché lo si sappia, come si è. Torno in piazza, a fichi e ciliegie che sono concreti, ma che s’inscrivono in questo orizzonte cognitivo di riferimento non solo come frutti ma come segni pregni di significato.

Il fatto è che oggi gli usi i tempi i modi e gli spazi son differenti. In piazza, il cui nome completo suona “piazza del mercato” non è più il centro di Spoleto. O almeno, non c’è più il mercato. Oltre a Serafino, sublime interprete della porchetta, ci sono due banchi di frutta e verdura. Il mercato è altrove. Qui è restata la piazza, la nostalgia e gli incroci della vita –delle biografie  con poche merci e molti ricordi.

La piazza come la immagino io è un testo fatto di memoria e speranza – per riprendere il titolo di un volumetto di Remo Bodei, che però trattava di altro. Nel tessuto urbano, le vie sono spazi che suggeriscono il fluire della circolazione; le piazze invece mi appaiono come degli invasi, quasi luoghi di apparente stasi dei flussi, in realtà dove, mediante il rallentamento forzato le diverse correnti che dalle vie che vi si affacciano giungono a mescolarsi, scavano e s’approfondiscono, e poi, arricchite dagli scambi defluiscono per mettersi di nuovo in circolo –dentro e fuori dalla città. Le città, le piazze in particolare, sono come dei testi umani che, per effetto di questo rallentamento delle genti -che vi si fermano, parlano, s’incontrano, scambiano prodotti, merci e parole –  esprimono al meglio la sensazione di totalità, di senso compiuto del testo prodotto dall’uomo che abita in città. Una mappa di convivenza in cui il rischio dell’oblio incombe, ma stratificazioni appena visibili – a tratti simili a cicatrici-  suggeriscono al tatto vicende che sono ancora vive e che dovrebbero segnare la coscienza contemporanea.

Dicevo che immagino la piazza come un testo completo di memoria e speranza – perché dall’ascolto attento possono alimentarsi speranze in virtù delle quali la storia non assuma la forma di un unico processo coattivo e determinato. Speranza alimentata anche solo da gesti semplici, come venire ancora a qui proporre le proprie abilità e le proprie merci, la memoria di saperi e sapori allevati in questa terra– speranza che passa anche attraverso la disponibilità a gustare in modo attento e consapevole un fico maturo, respirare il profumo di un mazzetto di finocchietto selvatico, incantarsi al colore zuccherino e acidulo di una manciata di inusuali e rare ciliegie gialle.

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