Generazione F                                     Il piacere di raccontare

 Sono poche le persone che non hanno almeno un racconto nel cassetto. Non necessariamente col desiderio di vederlo pubblicato. E Il piacere di raccontare è il fil rouge di questo primo numero del quinto anno della nostra rivista.

Pertanto, ho chiesto agli amici collaboratori di scrivere su questo argomento: ovvio, chi vi si dedica per professione (come Amelia Belloni Sonzogni) o chi ha nel Dna tutte le doti dei migliori scrittori (vedi Andrea Tomasini) ne è stato avvantaggiato, ma non sono mancate le belle sorprese (e, dico la verità, in qualità di direttore di Generazione Over 60, questa era la mia speranza): convincere a trovare il coraggio di estrarre dal famoso cassetto un racconto- peraltro l’unico, almeno finora – come ha fatto Paola Emilia Cicerone.

Ovviamente si può raccontare anche attraverso altri modi: pittura, fotografia, autobiografia…

Per quanto mi riguarda, ho iniziato a dedicarmi ai racconti prestissimo, più o meno a 5 anni, avendo imparato a scrivere prima di andare a scuola. E tantissimi sono stati i racconti (non erano favole) che ho accumulato, molti dei quali illustrati da mia madre, che aveva il dono a me sconosciuto di disegnare superbamente. Non so perché, ma rammento sempre la storia di un ragazzo chiamato Nuzzi (inventavo sempre nomi improbabili) che, dopo più traversie, calatosi in un pozzo ne riemergeva da fanciulla… col nome di Nuzzina. Purtroppo l’altro mio genitore, durante i vari traslochi della nostra vita, ha ritenuto che pagelle scolastiche, poesie e racconti costituissero inutili chili di carta, da mandare al macero senza porsi alcun problema…

Da adulta mi sono dedicata maggiormente alla poesia, non dimenticando comunque il gusto di raccontare. Quello di seguito, di qualche decennio fa, non è dei miei migliori racconti, ma ha richiesto parecchio coraggio per trascriverlo perché è evidente quanto mi sia messa a nudo trascrivendolo qui…

RICCIOLI DI MEMORIA

  Ora erano considerati fuori legge.

 Come possono degli innocui riccioli di burro essere banditi dalla tavola della prima colazione a mo’ di criminali, colpevoli di cospirare contro l’igiene e la salute? Per Serena restava un mistero.

Mentre fissava i tre quadratini di burro confezionato, che giacevano indisponenti e freddi su un piattino tondo davanti a lei, accanto ad altrettante tristi marmellatine di sicuro non preparate dal cuoco dell’hotel, Serena rivide davanti a sé la bambina che era stata tre decenni prima. Per un attimo le parve quasi di sentire odore di bomboloni e cioccolata calda, colazione la cui promessa aveva strappato al padre la sera prima, quando fradicio di sudore e di preoccupazioni circa le ultime cambiali da pagare, era arrivato alla pensione Mirabell per il consueto fine settimana a trovare la famiglia. Ossia lei, sua madre e il fratello Davide.

 E con la cioccolata le sembrò di avvertire anche l’odore di suo padre. Un odore non molto gradevole, a causa del quale il suo abbraccio settimanale di saluto era spesso più frettoloso del dovuto.

 E ora li sentì, tutti insieme: odore di cioccolata calda, profumo di bomboloni della Romagna, sudore del padre che aveva viaggiato per quasi sette ore sull’asfalto dell’Autosole… Fu quasi una vertigine nauseabonda.

 Vuoi vedere che a forza di non mangiare avrebbe finito col sentire profumo di madeleinettes (e, del resto, i suoi bomboloni che altro erano, se non proletarie madeleinettes proustiane)?  Ma per quante scemenze e associazioni di idee la sua mente stesse facendo senza sosta, un pensiero nitido la bloccò: lei (dire mia figlia, o peggio pronunciare il suo nome era difficile, ancora troppo difficile) non aveva mai visto un ricciolo di burro in vita sua, né avrebbe mai avuto un’occasione per vederlo.

E per l’ennesima volta si diede della stupida per aver pensato che, fra le innumerevoli e importanti cose che la sua bambina non era riuscita a fare, si fosse soffermata sulla conoscenza di un inutile e barocco ricciolo di burro.

 Quando lei, Chiara (ecco, aveva pronunciato quel nome, scelto con puntiglio e difeso strenuamente dalle obiezioni di Sandro, che lo trovava banale), non aveva fatto in tempo a vivere cose ben più importanti. Come passare notti in bianco per studiare o per amare. Per viaggiare e per conoscere. O dormire giornate intere per recuperare sonno o per non dover soffrire… Né aveva saputo che cosa significa dormire in tenda, né aveva mai aspirato una prima sigaretta.

E lei non aveva fatto in tempo a sorprenderla con il mozzicone fra le mani, o al telefono per una conversazione che non accennava a terminare…

 No, la sua bambina aveva vissuto solo cinque brevissimi anni. Il tempo di guardare stupita cinque alberi natalizi (per ricordarsene quanti, in realtà?), vedere la neve una volta soltanto (gli inverni al Nord non sono più quelli di un tempo, lo scrivono in continuazione anche i giornali), soffiare su una torta cinque… anzi no, solo quattro volte. Perché il quinto compleanno di Chiara sarebbe stato domani, 26 luglio. E lei era scappata da tutti e da tutto per quella giornata, che non voleva passare in città, dove troppe cose e persone le avrebbero ricordato i quattro 26 luglio precedenti. E in particolare l’ultimo, il più recente. All’inizio, per qualche breve ora, il più felice. E contemporaneamente, per una beffa del destino (e nessuno meglio di lei sapeva quanto il destino esiste e sappia essere crudele), il più tragico e il più straziante.

 A dire il vero, la mattina era cominciata monotona e afosa, quel 26 luglio di un anno prima. “Ma come, siete ancora in città, con questo caldo? Perché non porti un po’ la bambina al fresco… si muore qui… non dirmi che devi lavorare. Va bene, avrai una causa, ma fare l’avvocato non ti giustifica dal dimenticare che tu e tua figlia avete non solo il diritto ma anche il dovere di andare in vacanza. E tuo marito, anche lui ha un sacco di lavoro da fare? Ma negli ospedali i medici non stabiliscono dei turni? Almeno avete deciso che cosa fare oggi per festeggiare Chiara?”

  “Sì mamma, non ho una ma tre cause che non posso rimandare. Lo sai che in casa abbiamo l’aria condizionata … no, ho chiesto alla pediatra, non la tengo troppo alta…

Oggi ho invitato qualche amichetto dell’asilo in una sala specializzata per compleanni. Ci sarà anche un animatore… no, mamma, non è per liberarmi di questo impegno, penso che così i bambini si divertano di più …”

 Per fortuna la telefonata aveva deviato per via di quel rimprovero, e aveva potuto evitare l’argomento Sandro. Per quanto sua madre sospettasse qualcosa, non poteva certo immaginare quale fosse la situazione: lei e il marito non si vedevano da un paio di mesi. Dal giorno in cui lui aveva preso un po’ di biancheria, due golf, tre pantaloni e tre camicie e, assieme a due enormi scatole di libri, aveva traslocato. Ufficialmente “per riflettere”; realmente, per andare a vivere con la bella e bionda Eleonora (come da copione, sua giovane infermiera).

  In quella umida mattina di luglio di un anno prima, però, Serena aveva deciso di non lasciarsi andare più di tanto alla malinconia né di piangersi addosso, ma di voler pensare alla sua vita: vale a dire, alla sua bambina che compiva cinque anni, alla sua carriera, all’estate che l’aspettava per far chiarezza dentro di sé.

 Ma non c’era stata nessuna estate in cui poter fare chiarezza. Solo un imbuto nero e osceno, che aveva avviluppato con crudeltà e sadismo la sua vita. E tutto in poche ore. Dopo averle fatto intravedere, anzi, una luce inaspettata, colma di promesse e di speranze.

  Ma ricordare come si erano svolti gli avvenimenti era impossibile. Vedeva, come in mezzo ad una bruma leggera e pesante allo stesso tempo, la faccia di Sandro che si materializzava sulla porta assieme alla sua borsa da viaggio e alla sua migliore aria pentita (Ho pensato di venire a far gli auguri a Chiara… Che dici, posso fermarmi con voi questa sera? Hai bisogno di una mano con tutti questi bambini? Pensi che piacerà questo alla bambina?).

  E come in un sogno di cui si sa di essere protagonisti – un sogno di frasi e immagini al rallentatore- subito dopo riconosceva se stessa che, come ipnotizzata, teneva il capo sanguinante della sua piccola, mentre mormorava qualcosa senza senso… e poi sentiva l’odore tipico di un ospedale, e suo marito che urlava e cercava di far valere le sue credenziali di medico fra quei colleghi sconosciuti…

 Poi, non aveva voluto ricordare più nulla.

 “Signora, desidera qualcosa d’altro? Un altro caffè?”

Serena riemerse dal suo limbo… il suo non si poteva neanche definire un inferno, pensò. Questo avrebbe presupposto lacrime disperazione e grida. Mentre lei da un anno viveva nella nebbia, senza gemiti né segni palesi di pazzia. Che tipo di vita era diventata la sua?

 ”No, va bene così. Però, per favore, porti via il burro. Mi nausea”.

 Un’ora più tardi era sdraiata in spiaggia, sul lettino in prima fila, sotto un ombrellone dei bagni “Filippo”.

Due ragazzini giocavano davanti a lei. Era inevitabile: lo sapeva e, forse masochisticamente, aveva quasi cercato questa situazione. Sperava che finalmente le sgorgassero le lacrime e potesse urlare tutta la sua rabbia.

Ma neppure ora ci riuscì.  Chiuse gli occhi e dopo poco si trovò in una sorta di dormiveglia lucido, dove poteva indirizzare gesti e parole, se non addirittura pensieri.

Vicina, vicinissima lei, c’era una bambina di circa 7 anni che faceva il bagno e imparava a nuotare. Era sola la piccola, con una serietà strana sul volto e il cipiglio proprio di chi è abituato a giocare da sola, senza frequentare molti coetanei ma, al contrario, di chi è solito avere a che fare con adulti che non sono né mamma né papà.

Serena guardò con attenzione quella bambina, senza dubbio la sua bambina che in quello stato di semicoscienza lei vedeva con un paio d’anni in più dell’ultima volta, di quell’ultimo maledetto 26 luglio… ma era bruna, con strani capelli ramati e occhi allungati.

  Ebbe voglia di avvicinarsi a quel costume rosso e quel cappellino a quadretti bianchi e rossi, di sentire stretto al suo corpo quello di Chiara, anche se una parte di sé le ricordava crudelmente che si trattava solo di un incubo ad occhi aperti.

Mentre stava per avvicinarsi alla piccola, in quel mare calmo che doveva– necessariamente- essere l’Adriatico (il solo mare che Chiara aveva avuto modo di conoscere), fu distolta da un pontile alla sua sinistra. E quindi da un paio di motoscafi che passavano troppo vicini a riva, nonché dal profumo di una focaccia alle cipolle proveniente da due ragazzi che sotto l’ombrellone (nella prima di sole tre file) mangiavano avidamente, con i piedi infilati in una specie di sabbia scura e catramosa, piena di piccoli sassi appuntiti.

   Mentre la parte lucida di sé si domandava se è possibile sentire profumi all’interno dei sogni (quante volte si era chiesta se sognava in bianco e nero o a colori), realizzò che qualcosa non quadrava. La spiaggia senza sabbia, gli ombrelloni ammassati in poche file, i motoscafi che indisturbati scorrazzavano vicino ai natanti. E poi c’era quel profumo di focaccia al posto di bomboloni…

 Nel frattempo, era giunta a toccare il capo della piccola: glielo sollevò con estrema lentezza, ma già sapeva. Sotto quel cappellino buffo si alzarono interrogativi prima gli occhi, quindi seguì un naso particolare (no, non quello piccolo di Chiara, copia perfetta del naso di Sandro e della famiglia di lui), e per ultima la bocca imbronciata, con una fossetta al centro della guancia sinistra. La sua fossetta. Quella inconfondibile di Serena.

 Ormai era sveglia, anche se preferiva restare con gli occhi chiusi sotto il sole che l’aveva raggiunta sotto l’ombrellone. In questa maniera, infatti, le sembrava di capire meglio il significato di quel sogno (se di sogno si trattava).

 Non Chiara era la bambina orfana di amore, ma lei stessa. Non a caso si era rivista quando, dopo le prime estati dell’infanzia trascorse in Romagna, era stata condotta per alcuni anni a passare le vacanze in Liguria, tra Santa Margherita e Chiavari, ospite di una zia. I suoi genitori si erano separati subito dopo la prima elementare, e lei aveva rimosso (cosa che le riusciva facile, a quanto pare) gran parte di quel periodo, quando aveva dovuto affrontare abitudini e giorni nuovi. Spaesata e smarrita e sola.

  Sentì pungere le lacrime. Le sue prime lacrime da un anno. E non erano per la sua bimba (quanto si può piangere senza singhiozzare lo sapeva bene), ma per se stessa. E con i ricordi rimossi per decenni, ora sgorgarono anche fiotti di ricordi recenti. Tutti assieme, lucidi e ordinati come soldatini. E lei li assaporava e li teneva stretti. E finalmente permetteva a se stessa di consolare quella piccola Serena di tanti anni prima, tenendola stretta e promettendole di non farla più sentire ingiustamente in colpa. Mai più.

 Aprì gli occhi, se li asciugò con il dorso delle mani (proprio come faceva da bambina), quindi fece un respiro lunghissimo. E mentre respirava sentì- o così le parve – una folata mista di focaccia, bomboloni, cioccolata calda e gelato al pistacchio.  Tutti insieme: frammenti di momenti e persone le venivano incontro, ed erano tutti momenti suoi, di quella Serena che li aveva seppelliti ma che ora esigeva di essere ascoltata. E sgridata, magari; oppure spronata e rimessa in riga. Ma comunque amata.

Respirò ancora una volta, prima di decidere di entrare in acqua.

La seconda decisione fu di andare a procurarsi un “arricciaburro”, o come diavolo si chiamava. Se mai fosse stato in vendita.

Ora la mia vita è fare la giornalista davanti a un computer e, scrivendo soprattutto di salute e scienza, non devo espormi in prima persona. Ricordi, emozioni e sentimenti continuano ovviamente a roteare dentro di me, il che mi ha portato recentemente- dopo tanti manuali- a pubblicare un libro in cui racconto una mia esperienza (“Ho vinto una biopsia”). L’amore per la scrittura ha trovato una nuova via, spero apprezzata dai lettori.

A tutti buona lettura!

                                                                                     Minnie Luongo

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