«Il potere silenzioso delle intenzioni serie»

W il lupo!

di Amelia Belloni Sonzogni – scrittrice

Un lupo in corso Roma, a Levanto: l’immagine legata alla notizia risale allo scorso aprile e si trova qui:

https://www.ilsecoloxix.it/la-spezia/2023/04/08/news/lupi_in_liguria_esemplare_corre_per_levanto_lesperta_no_paura-12743894/.

Forse qualcuno ricorda il mio cenno all’episodio, al termine del pezzo del mese scorso. Aggiungo solo che tutto lo spavento citato dal titolo del quotidiano non mi pare si manifesti nell’andare del lupo, ma è solo la mia impressione.

Al momento, per quanto ne so, ci sono stati altri avvistamenti in altre zone più periferiche; per fortuna, non si è verificato nessun incidente, nessun intervento “umano”.

Non è certo una novità vedere animali selvatici nei centri abitati, purtroppo; purtroppo per loro, gli animali selvatici, che non possiedono armi per difendersi da trappole, veleni, fucili di chi prima li stermina, poi li reintroduce, quindi li teme, per cui li uccide. E il circolo vizioso, marcio direi, non finisce mai.

Non ho mai incontrato un lupo e non ho idea di quali potrebbero essere le mie reazioni istintive; credo, con ragionevole certezza, che la paura non sarebbe tra quelle. Credo che la gioia dell’incontro mi aiuterebbe a controllare qualsiasi moto inconsulto.

Non ho mai visto un lupo dal vivo, ma se capitasse vorrei che potessimo guardarci negli occhi anche se so – e me lo ricordano le pagine di cui vorrei parlare – che un lupo ti trapassa con lo sguardo perché guarda attraverso, guarda al di là di te, guarda l’uomo per prendere nota della sua presenza e catalogarlo. Poi se ne disinteressa, non gli serve.

Non ho mai visto un lupo dal vivo. Solo immagini, documentari, brevi filmati realizzati con le fototrappole e, da piccola, la meravigliosa storia di San Francesco e il lupo mi ha affascinato più di mille fiabe e almeno quanto i libri letti in seguito.

Tra quelli di più recente ri-lettura, uno mi ha letteralmente conquistato e fatto riflettere sul «potere silenzioso delle intenzioni serie» di chi non usa le parole per comunicare o dimostrare o convincere ma agisce. Gli animali sono esempi meravigliosi di questo assunto, perché loro sanno andare al di là delle parole e sono capaci di gesti importanti, significativi.

Al di là delle parole è il titolo del libro di Carl Safina, dai cui ho tratto (p.145) la frase tra virgolette per farne il titolo di questa nota a margine.

Diviso in tre parti – dedicata la prima agli elefanti, la terza alle orche – in quella centrale, L’ululato dei lupi (pp. 213-360), racconta dei lupi della Lamar Valley, nel parco nazionale di Yellowstone, seguiti ogni giorno, dai primi anni 2000, da uno studioso dei lupi alfa, Rick McIntyre. Con lui, e con altri studiosi, Carl Safina si apposta e li osserva.

Il racconto non è tale da poter essere riassunto, per la semplice ragione che si toglierebbe il piacere della lettura e della visione. Uso il termine visione intenzionalmente, perché leggendo ci si trova immersi, in tridimensionale, nella savana (con gli elefanti), nelle acque degli oceani (con le orche) e appostati a scrutare i crinali per seguire le piste di questi meravigliosi esseri viventi e senzienti e anche – è dimostrato nel libro – ragionanti.

Prima di tutto, Safina ricorda Jane Goodall, che si vide respingere dagli Annals of the New York Academy il primo articolo scientifico sugli scimpanzè perché aveva chiamato gli animali per nome e non per numero.

Jane Goodall rifiutò di usare it (esso) al posto di he (egli) o she (ella).

Gli animali – non solo quelli di affezione cui diamo un nome, che registriamo negli archivi dei pubblici uffici, che dotiamo di un libretto sanitario, che amiamo e curiamo come familiari, di cui sentiamo la mancanza quando muoiono – sono individui, con una precisa identità, con relazioni e personalità.

«Un lupo è un chi – un soggetto» dice Safina, che conta quando è vivo e conta quando è morto perché la sua assenza modifica le regole del gruppo.

Per dimostrarlo, racconta la storia di un super lupo, «il più famoso di Yellowstone: il suo nome era Twenty-One».

21, un numero, ma se lo consideri un chi, il numero diventa nome: Twenty-One non perse mai un combattimento, non uccise mai un lupo sconfitto, si dimostrò perciò magnanimo, impressionando il resto del branco e i rivali con la propria potenza: una forza e un autocontrollo che ne elevarono lo status. Seppe fingere. Sfamò i propri cuccioli e si occupò in particolare di quello malaticcio. Decise anche dove e come morire, a nove anni.

Chissà per quale motivo il lupo che andava in corso Roma a Levanto era solo.

Un individuo può essere allontanato dal proprio branco e costretto a vivere solo, fino a quando crea a sua volta una coppia e quindi un branco. Sono molte le ragioni che spingono i branchi a formarsi e disfarsi: questioni di individualità forti, incapaci di coabitare, di sviluppo di caratteri distintivi per ogni branco e desiderio di andare, di difendere il proprio spazio, di formare un nuovo gruppo familiare con cui cooperare, specie nella caccia alle prede.

E quanto è diverso dal maschio alfa umano un lupo alfa!

Dotato di una tranquilla autostima, non è aggressivo: di fronte a lui i rivali si sottomettono o se la squagliano, dà l’esempio, è l’esempio. E il branco lo osserva, lo analizza, lo valuta: ne soppesa la personalità che plasma a sua volta l’intero branco, in cui possono emergere anche femmine alfa. Nipote di Twenty-One, Oh-Six (perché nata nel 2006) ad esempio, «superlativa cacciatrice e maestra di caccia», diede vita a un proprio branco. Morì uccisa, da un umano, nonostante il radiocollare.

Metafore del selvaggio, i lupi – ipotizza Safina – sono tanto temuti dall’uomo perché considerati quasi una tribù rivale, una banda di ladri: storicamente perseguitati, bruciati, impiccati, avvelenati. Con l’intento di farli soffrire. Non solo nel Medioevo e soprattutto nella civiltà occidentale che associa a tale comportamento anche il disprezzo per l’animale che caccia: pare quasi «odio razziale».

È sempre brutta la predazione, ma restituisce routine e l’abitudine – diceva Hume – è uno dei principi della Natura, che non usa fucili, però. Né tanto meno utilizza lo scherno.

David Hume (1711-1776)

«Quello che stiamo seguendo non sono soltanto lupi. Sono le loro storie» e i lupi le raccontano con gli ululati che Safina chiama «musica lupina».

Mi capita talvolta di soffermarmi a guardarli e ascoltarli sul sito web del Wolf Conservation Center: io mi incanto e il mio cane drizza le orecchie, gira la testa con inclinazione interrogativa. Musica, davvero, che traduce le loro parole mancanti: «i lupi non hanno parole. Hanno, però, riconoscimento, motivazione, emozione, immagini mentali, una mappa mentale del loro territorio, un albo della loro comunità, un archivio di ricordi e di abilità apprese, e un catalogo di odori con abbinati, quali definizioni, i relativi significati». Parlano quindi, ululando tra loro anche per più di un’ora. Il suono delle loro chiacchiere è tanto più gradevole di certe voci umane sgraziate, becere e assordanti, magari utilizzate per dire parole insensate, o peggio.

Nei lupi, Safina dice di aver percepito «dei cani che si autogovernano e colgono l’occasione per crescere e assumersi la responsabilità della propria vita», di cui diventano padroni, migliori amici di se stessi. L’interazione con l’uomo ne portò alcuni a concentrarsi sugli esseri umani per sfruttarli come risorsa, tanto da domesticare se stessi, propagando geni che promuovevano comportamenti amichevoli.

Comprendo gli spaventi, immagino il dispiacere di chi subisce un danno dalla razzia di un lupo, ma penso che alla leggenda di San Francesco debba essere data la possibilità di attuarsi, anche perché è capitato: «L’esilio dalla natura, associato alla modernità, un esilio autoimposto, sembra aver deteriorato un’antica capacità umana di riconoscere la mente in altri animali. Eppure, può sembrare che gli altri animali riconoscano invece la mente degli umani»: a sostegno di questa affermazione, è citato da Safina l’esempio di equilibrio do ut des tra le tigri siberiane dell’Amur e i cacciatori udege e nanai, rotto dall’arrivo e dalla predazione indiscriminata e avida dei coloni russi. Le conseguenze della violazione di quel patto, di quel difficile equilibrio tra potere e rispetto, ne dimostrano l’esistenza stessa e testimoniano quanto le tigri, nel caso specifico, siano vendicative. E ho visto di recente un servizio sul falco grillaio che nidifica a Matera, sotto le tegole delle case dei Sassi, in una meravigliosa coabitazione.

Scrivo queste righe nel giorno di una dichiarazione del pontefice quanto meno discutibile, di sicuro a mio parere desolante, sui cani e sulle persone che li adottano. E mi appaiono immensi gli animali.

E ritengo degne di maggiore rispetto, soprattutto da parte sua, le persone che li considerano figli e/o familiari, se ne prendono cura, costruendo un «carrello» per consentire loro di camminare se disabili o, pur di raggiungere qualcuno in cui credono, li portano con sé, in una borsa, per salvaguardarli da possibili incidenti tra la folla. Forse sta proprio lì l’errore: l’averli portati da qualcuno e in un luogo che non se li meritano.

Il mio Pedro diventato disabile

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