(Ogni tanto penso che le nuove leve abbiano dotazioni genetiche razionate)
Di Federico Maderno – scrittore
Ricordo numero 1.
– Saluta la Signora!
– Ciau, signola.
– Si dice buongiorno. Non è una tua amica.
– Ah: buongiolno signola!
– Oh, che ometto educato!
Avevo forse tre anni e mezzo e non comprendevo perché, ogni tanto, si dovesse mettere in scena quel rito noioso.
Oltretutto, era evidente che non tutti i conoscenti che s’incontravano per strada erano così simpatici da meritarsi quella pur piccola attenzione.
C’erano i Fratelli Piras, ad esempio, che avevano il laboratorio fotografico proprio accanto al portone della nostra scala. Erano due sardi piccoletti e lestissimi, somiglianti come due gocce d’acqua tranne che per la capigliatura (uno portava i capelli lisci e tirati con la brillantina, l’altro due protuberanze crespe ai lati della fronte, da sembrare il Sor Pampurio). Loro, per dire, erano simpaticissimi. Quando si andava a ritirare gli sviluppi e le stampe dei rullini fotografici non mancavano mai di donarmi qualche sciocchezzuola che avevano in negozio, ed una volta, addirittura, mi regalarono una foto scattata al passaggio del Giro d’Italia del 1966, con la maglia “Salvarani” di Gimondi in primo piano.
Loro sì, non si faceva fatica a salutarli. Anzi, veniva spontaneo.
Ma il Dottor Malgara? Vogliamo parlarne?
Abitava due piani sopra di noi e aveva l’abitudine di andare a passeggiare sotto i portici dal palazzo, evitando però di percorrerli per l’intera lunghezza (sarebbero stati almeno un’ottantina di metri), ed invece preferendo invertire quasi subito il cammino e tornare indietro dopo non più di una decina di passi.
A guardarlo da lontano, lo si sarebbe detto in attesa nervosa di qualcuno in ritardo ad un appuntamento. Non era così. Passeggiava per una mezz’ora in quella maniera ogni sera, prima della cena. Può essere che glielo avesse prescritto il medico per farsi venire appetito o che la moglie non lo volesse tra i piedi mentre preparava il desinare.
Ma c’era una caratteristica peculiare che accomunava il Malgara ad alcune altre persone che ho poi conosciuto nel corso della mia vita: era terrorizzato dall’idea di dover salutare la gente. Così, sfruttava questa sua particolare tecnica di deambulazione per sottrarsi costantemente all’eventualità di dover scambiare un “Buonasera!” o un più amicale “Ciao!”. Infatti, ogni volta che scorgeva da lontano qualche persona per la quale sarebbe stato conveniente un cenno di intesa, al momento opportuno gli volgeva rapidamente le spalle, rendendo così sostanzialmente impossibile l’incrociarsi degli sguardi.
E maggiormente succedeva quando le persone sbucavano repentinamente da dietro il cantone del palazzo, dal momento che il portone di cui sopra si trovava all’inizio dei portici.
Allora, l’operazione di girata e fuga doveva svolgersi con celerità ineccepibile così che il poveretto s’era ridotto ad assomigliare ad uno di quegli orsetti dei tiro a segno che colpiti si ergevano rampanti e poi invertivano il verso della loro corsa.
Ebbene, anche in quel caso e contro ogni logica apparente c’era sempre l’indicazione genitoriale di attendere che lo sgusciante vicino di casa si concedesse una minima disattenzione per fulminarlo con un sonoro: “Buona sela, Dottol Malgala!”.

Ricordo numero 2.
Erano passati alcuni anni e frequentavo la seconda media. C’erano allora, tra le materie (oggi si devono chiamare “discipline”, altrimenti ti arrestano), le indimenticabili “applicazioni tecniche”. Classe regolarmente divisa in contingenti femminile e maschile. Secondo una logica che ricordava ancora molto le Figlie della Lupa, le ragazze si occupavano di gastronomia, modellazione della creta, cura delle piante da appartamento. Noi maschi dovevamo costruire una radio a galena e nessuno ha mai capito perché. Ci lavorammo quasi un anno, con molta svogliatezza e moltissima invidia per le compagne che pasticciavano con l’argilla. Alla fine, fingemmo tutti di percepire una vaga musichetta provenire dalle cuffie del marchingegno (qualcuno si disse convinto che si trattasse di “Giovinezza”) e l’impresa fu archiviata con la notazione: “Esperienza pienamente riuscita, ma con ampi margini di miglioramento”.
Avvenne un giorno che il Docente del comparto maschile fosse assente. Si trattava di un cinquantenne bolso come un pugile a fine carriera; anzi, come il sacco da allenamento del pugile in questione. Era un ex calciatore di origine ungherese a nome Meza Merdesz. Così, per quelle due ore di applicazioni tecniche fummo uniti alle compagne e dunque finimmo sotto la sorveglianza della loro insegnate, l’altezzosa Prof.ssa Maria Solletico.
Permettetemi, a questo punto, un piccolo inciso. Per correttezza, affinché non si possa risalire ai protagonisti veri di queste vicende, tutti i nomi citati sono stati drasticamente modificati. Per esempio, la Professoressa Maria Solletico in realtà si chiamava Mara Solletico.
Ora, quel genio della lampada in forma di donna decise che per unire le competenze di entrambi i comparti fosse utile impartire all’intera classe qualche nozione di disegno tecnico e si lanciò in una trattazione tanto maldestra dell’argomento che poco dopo, nell’esempio di assonometria cavaliera di un semplice cubo, risultarono visibili, della superficie laterale del solido, ben tre facce contemporaneamente.
Avrei potuto stare zitto, questo è vero. La storia del disegno tecnico non avrebbe subito conseguenze irreparabili. Ma gli idioti mi hanno sempre dato fastidio, fin dalla tenera età. In breve, ne nacque una disputa piuttosto accesa, durante la quale, di questo sono sicuro, mai travalicai i limiti di una educata contestazione.
Più tardi, andai da mio padre indignato. Lui si fece spiegare per bene l’accaduto, poi si lasciò scappare un sorriso e ciondolò un po’ il capo.
– Ma ho ragione o no? – domandai.
– In merito a cosa? Se ti riferisci all’assonometria cavaliera, non ci sono dubbi, ma…
– Ma…?
– Ma Lei, in quel momento era la tua insegnante e sarebbe bastato farle notare, un’unica volta e con calma, l’assurdità della sua costruzione grafica. Non le avresti fatto fare una figuraccia davanti a tutti; più tardi, riflettendoci, avrebbe capito di aver preso un abbaglio e…
Lo so: mio Padre aveva troppa fiducia nella specie umana. Io, in cuor mio, sapevo già che gli idioti non sono abilitati per i tempi supplementari, per ripensare a quello che hanno detto o fatto. Un idiota di classe, di prima fascia, ha un solo colpo in canna. Una volta sparato, si sente a posto e gratificato.
A metà anno scolastico, arrivarono le pagelle. Io trasecolai. In corrispondenza della disciplina di Applicazioni Tecniche, circondato sopra e sotto dagli otto e dai nove, campeggiava un improponibile 5. Oggi quella pagella è da qualche parte, in un raccoglitore marrone che non apro da decine di anni. Giuro che un giorno la tirerò fuori e la incornicerò, mettendola accanto alla mia laurea in ingegneria (ora che ci penso anch’essa ancora da incorniciare).
Ma quel giorno il mio stato d’animo era assai meno disinvolto e sarcastico. Tornai a casa in lacrime, letteralmente. Questa volta, nemmeno mio padre riuscì a lasciarsi scappare un sorriso.
Avrebbe potuto, ora lo so, andare a scuola e fare un pandemonio. Oltretutto, avrebbe avuto l’appoggio di tutti i docenti della classe che probabilmente quel 5 dovevano pur averlo letto come la stupida smargiassata di un collega.
Non lo fece e ora gliene sono infinitamente grato.

Ricordo numero 3. (tranquilli, brevissimo).
– Nonna, oggi a scuola un mio compagno mi ha fatto un dispetto.
– Cosa ha combinato?
– Mi ha preso il diario e me lo ha pasticciato tanto con un pennarello che adesso ho difficoltà a scriverci qualcosa sopra per le prossime due settimane.
– Poverino!
– No, tranquilla non è molto grave. Mi prendo gli appunti su qualche foglietto e poi lo infilo in mezzo al diario e così…
– No, ma io intendevo “poverino” il tuo compagno.
– Perché?
– Perché se alla vostra età nessuno gli ha ancora insegnato la differenza tra uno scherzo e un comportamento stupido che provoca solo un danno… prima o poi qualcuno gli darà quel che gli viene.
Potrei continuare, ma sarei solo più noioso di quanto non sia già stato.
Cosa si vuol dimostrare? Un concetto abbastanza semplice. Il fatto che l’educazione, all’inizio, neppure si riesce a capire. Perché è materia più complessa di quello che sembri. Soprattutto per una giovane mente. All’inizio, è inevitabile che si subisca, come una regola di gioco che sembra andare contro la logica e contro i propri interessi. Come per gli Imprevisti del Monopoli: – Andate in prigione direttamente e senza passare dal “Via!” –. Sai che così ci perdi le ventimila lire, ma ti adegui.

Però, c’è di bello che l’educazione ti rimane dentro e lentamente prende corpo e significato.
Ora, mi sia consentito il dire che in questi giorni tormentati…
Sembra che quello della nostra infanzia sia un mondo andato perduto. L’”Atlantide” dei comportamenti sociali, l’estrema Thule del convivere civile.
Cosa ci sia “dietro” è difficile dirlo. Carenze di educazione familiare, certamente. Poi, ci sono i social e sui danni che ne possono conseguire preferisco sorvolare. E ancora, quanto male possa fare l’istruzione scolastica attuale non spetta a me giudicare. Per intenderci, faccio addirittura parte del sistema ma sono troppo di parte, nel senso che in termini educativi rappresento uno degli abitanti di Atlantide (peraltro il più anziano).
Mi limito, dunque, ad osservare gli effetti di questo “nuovo mondo”, del bel Sol dell’avvenir.
Eccole, le nuove generazioni!
Ma… Un attimo, perdio! Sento già un brusio di disapprovazione che si leva dalla schiera dei lettori (tutti e tre tetragoni, oggi Ugo ha detto che non poteva venire). Allora, chiariamo il concetto: a quanti stanno già storcendo il naso, voglio dire che le considerazioni che seguono sono al netto delle classiche eccezioni, rare ed eventuali.
1) L’adolescente medio ha un solo registro di comunicazione, verbale e comportamentale. Tende a rivolgersi ad un adulto come ad un coetaneo, ad uno sconosciuto come ad un amico di bagordi.
Esempio: ci sono due docenti che discutono in corridoio, o nella sala insegnanti? Bene: arriva lo studente di turno e…
– Prof, le ha corrette le verifiche?
Non aspetta nemmeno che chi sta parlando concluda una frase.
Si piazza tra i due colleghi (preferibilmente dando le spalle a quello che in quel momento meno lo interessa e cercando anzi di spingerlo materialmente lontano, escludendolo dall’argomentazione) e pretenderebbe, seduta stante, non solo di avere la risposta alla vexata quaestio, ma anche che l’insegnante ricordasse, uno ad uno, i voti attribuiti.
– Non vedi che sto parlando col collega? – provi ad obiettare.
– Ah, ma dicevo così (“dicevo così”, per un adolescente equivale a “intanto ogni cosa ha importanza zero, massimamente le cazzate che condivide con quel cretino di matematica ”).
E infatti, mica smette, insiste:
– Quando ce le porta le verifiche, Prof?
2) L’adolescente medio ritiene che il mondo sia imperniato sulla sua augusta persona. Quello che gli gira intorno fa parte di meccaniche celesti che seguono algoritmi bruti, perfettamente inutili.
Finisce l’intervallo, viene concesso un tempo ragionevole per raggiungere l’aula, poi si chiude la porta e si riprende la lezione. Dopo un lasso imprecisato che può andare dai due ai dieci minuti, l’uscio si spalanca con un vigore mal trattenuto e entrano due o tre allievi ritardatari, in gruppetto o alla spicciolata.
Danno un’occhiata fugace a quello che c’è scritto sulla lavagna e tentano di raggiungere il banco, non di rado annunciando a mezza voce (volume che per un docente corrisponde a gridare in biblioteca) che “AL BAR SONO FINITE LE FOCACCE FARCITE”. “Tentano di raggiungere”, dicevamo, perché li fulmini con uno sguardo che incenerirebbe gli arbusti e finalmente capiscono che qualcosa non sta funzionando.
Si bloccano. Esibiscono un’aria sinceramente stupita (questo è il dramma : “sinceramente stupita”) e restano in piedi a metà del tragitto.
– E allora…?! – dici tu a muso duro, sperando che nelle loro menti semplici si sviluppi un vago senso di inadeguatezza.
Le prime volte credono che tu ti sia alterato per la drammatica notizia delle focacce. Sono bravi ragazzi, in fondo. Non mi meraviglierei che si rendessero disponibili a procurarti le focacce dal panettiere più vicino.

– Si entra così? – provi ad aiutarli.
Ma non capiscono.
Non capiscono nemmeno quando gli ricordi che due giorni prima il Dirigente scolastico, arrivato in aula per una comunicazione alla classe, ha bussato garbatamente prima di dischiudere l’uscio e poi lo ha fatto con una cortese delicatezza.
No, non lo capiscono ancora.
Allora, al momento rinunci. Vedasi la regola degli “imprevisti” e delle ventimila lire non ritirate.
Li fai uscire. Li fai bussare e rientrare invitandoli ad aprire la porta delicatamente. Le prime volte, sui loro volti si irradia un’espressione di garrulo imbarazzo. Assomigliano ai pigmei che per la prima volta vedono i loro volti impressi nella stampa di una Polaroid.
Va avanti così per un mese, con le classi nuove, quelle non ancora “trattate”. Poi, continuano a non capire, ma rientrano con meno ritardo, bussano e si siedono senza far rumore. Probabilmente credono faccia parte di un rito pagano (i Pigmei sono sempre dietro l’angolo).
3) L’adolescente medio ha per la cosa pubblica la stessa attenzione che riserva per i jeans con gli strappi vista natiche. La stessa che riserva all’incolumità dei compagni e finanche alla sua.
Li porti fuori di classe (io ho questo terribile privilegio) per una esercitazione. Utilizziamo strumenti che costano fino a ventimila euro ciascuno. Ne parli in aula molto prima di passare alla pratica, subissando la platea distratta di raccomandazioni che pare perfino tragico dover fare a dei quasi adulti. Ti sembrano concetti semplici, comprensibili anche per un bambino: gli strumenti costano un patrimonio, se li danneggiamo non possiamo più esercitarci; gli strumenti dotati di laser, inoltre, sono potenzialmente pericolosi per la vista.
In ultima analisi: se alla prima uscita vi comportate da sciocchi, la prima uscita può considerarsi anche l’ultima.

Dopo ore di spiegazioni, esempi e raccomandazioni, arriva il giorno della prima prova pratica.
Hai venti assatanati da seguire, li porti in laboratorio a recuperare la dotazione strumentale e inevitabilmente sei l’ultimo ad uscire dal locale. Quando arrivi in strada, si sono già organizzati. Un paio sta utilizzando le paline per una gara di giavellotto. Un idiotino (non vorrei infierire, ma si chiama Paolino Solletico) si ostina ad appoggiare l’occhio al cannocchiale dalla parte della lente collettrice: se pasticciando sui tasti come sta facendo attivasse il segnale laser del distanziometro diventerebbe ipso facto l’Orazio Coclite del corso geometri. Un altro ha montato lo strumento sul cavalletto, ma quello si ostina a non ruotare. Gli hai spiegato cento volte di non forzare mai gli apparati di blocco, ma lui no. L’alidada non gira, e lui spinge, il maledetto. Sembra che non abbia mai fatto altro nella vita. Probabilmente sono mesi che si sta allenando, in palestra, per fare fuori il sistema pur robusto della vite di pressione. Gli arrivi da dietro e solo per una frazione di secondo eviti il disastro, ma quello che vorresti fare davvero è dargli un buffetto sulla nuca. Di quelli così forti da spostargli di un paio di centimetri le efelidi.
Hai appena salvato ventimila euro della Scuola e alle tue spalle una voce dice:
– Prof, ma cosa succede se si ruota davvero la levetta di collegamento tra il basamento e l’alidada? Ha presente quella che lei ci ha detto di non toccare nemmeno?
Ti giri con aria spiritata:
– Ma lo hai fatto? – esclami disperato, cercando con gli occhi pezzi di strumento ormai irrimediabilmente dissociati.
– Ah, ma dicevamo così… – dice un’altra voce. Nemmeno controlli. È quella di Paolino S.!!!!!!!!!!!!!!
Alla fine, mi torna in mente mia Nonna. Poverini.