La geniale rappresentazione degli animali da parte dello zio Walt spesso ci ha impedito di considerare l’ecosistema nel suo insieme
Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista

Animalista è un termine che non mi è mai piaciuto. Chi non si dichiara tale odia il regno animale? E chi si ammanta del termine lotta forse a spada tratta per rispettarlo e conservarlo? Non so perché, ma sono allergico alla parola: mi sembra descriva gente che per salvare un randagio butterebbe a mare un bambino.
E’ che siamo un po’ tutti figli di Walt Disney. Nei suoi cartoni animati ha riprodotto magistralmente le movenze e le espressioni di una moltitudine di animali, dai più comuni ai più esotici, ma ha anche attribuito loro sentimenti e comportamenti tipicamente umani, generando in noi bambini qualche fraintendimento. Ci ha fatto intravedere un mondo meraviglioso e ha stimolato sana curiosità che spesso nei ragazzi è sfociata nell’approfondimento delle scienze naturali, presupposto basilare per poter inserire correttamente gli esseri viventi nel contesto più ampio di ecosistema. Un ottimo punto di partenza per iniziare un affascinante viaggio nei segreti della natura, insomma. Con qualche ipocrisia di fondo.
Credo non sia corretto disconoscere i naturali confini che separano e differenziano l’uomo dagli altri animali. Dico altri per non dimenticare mai che siamo animali anche noi e che il primato che ci distingue (ammesso che lo faccia in senso positivo) è puramente merito di una spinta evolutiva che in tempi relativamente recenti ci ha premiato più di altre specie. Ci sarebbe molto da discutere sul fatto che l’Homo sapiens si sia più adattato a vivere sul pianeta terra di una blatta, ma questa è un’altra storia.
Chiunque abbia un cane o un gatto sa benissimo che da subito si stabilisce un legame affettivo fortissimo che ci fa considerare la bestiola come parte integrante della nostra famiglia, al pari dei figli e del nonno. Su questo non si discute; noi proiettiamo moltissimo del nostro portato emotivo sui nostri beniamini e ne siamo ampiamente ricompensati.
Resta da definire il rapporto uomo-animale al di fuori della sfera intima e affettiva. Non si discute che, in quanto coinquilini dello stesso pianeta, dovremmo salvaguardare al massimo il patrimonio naturale che compone la biodiversità perché questa è alla base della vita e presupposto imprescindibile per la nostra sopravvivenza, ma ancora per un po’ nulla ci vieta di trarre da loro qualche vantaggio: in fondo da millenni coltiviamo le piante e alleviamo gli animali a scopo alimentare.
Intendiamoci, è un dato di fatto che si dovrà ridurre l’impronta ecologica dell’uomo sul pianeta, ma se non si applica un po’ di gradualità si cade facilmente vittima di crociate da salotto. Un certo ambientalismo molto di moda è tipico dei Paesi ricchi come il nostro: non possiamo pretendere analoga e tempestiva adesione da parte di chi ha da poco debellato la fame o si sta avviando sulla strada di uno sviluppo economico che solo ora noi stiamo mettendo in discussione e rinnegando, almeno a parole. In fondo l’uomo ha da tempo immemore sancito il proprio dominio sugli altri animali cacciandoli, allevandoli e utilizzandoli a proprio vantaggio. Qualche battaglia persa contro topi, scarafaggi e zanzare è un bel vulnus alla sua autostima, ma tant’è, c’est la vie.
Nel lungo periodo ha senz’altro ragione Bill Gates quando afferma che non mangeremo più carne di allevamento, ma ammassi di cellule animali coltivate in vitro: al di là dell’etica, l’allevamento di bestiame presto diventerà insostenibile per il consumo di suolo, di acqua e per l’emissione di gas serra, ma ci vorrà tempo. E dato che soltanto un vegano duro e puro si può permettere di dissertare della antica abitudine di nutrirsi di animali morti (non si accettano mangiatori di spaghetti alle vongole, sushi, frittate e gelati alla crema), dobbiamo cercare di capire chi siamo e dove vogliamo andare. Anche le levate di scudi verso quei popoli che hanno abitudini alimentari per noi deprecabili e barbare, le trovo un tantino stonate. So di attirarmi gli strali di molti, ma è un fatto che ci siano Paesi di millenaria cultura dove i conigli sono intoccabili animali da compagnia e si cucina la carne di cane senza particolari turbe, così come da noi si mangiano impunemente i cavalli e gli asini, le rane e le lumache. Tanto prima o poi gli insetti li mangeremo tutti, checchè se ne dica. E qui, nei distinguo che facciamo sempre tra specie, un vero e proprio razzismo animalista, si cela l’ipocrisia più grande, quella di considerarne sacrificabili alcune e altre no.

La caccia è demonizzata e ci sono tanti buoni motivi per questo. Ma dopo aver visto da vicino come si ottiene la carne di pollo negli allevamenti industriali, non trovo così mostruoso abbattere un fagiano liberato da piccolo nei boschi e cresciuto sempre nel suo ambiente naturale fino a quel giorno, servirlo a tavola con le patate ed evitare così l’uccisione di un pollastro che sarebbe vissuto quasi senza avere aria da respirare per tutta la vita. Alla fine il bilancio sarebbe identico: un pollo. E la pesca dilettantistica? Molti animalisti non fanno una piega di fronte a un fritto di mare o un’orata al cartoccio: perché non dovrei andare a trote in Val Badia?
E poi tutto questo amore per gli animali spesso si riduce nell’ammaestrarli, renderli giocattoli senza dignità, cosa che dal punto di vista di chi ama gli animali è volgare e svilente, quasi che ridurre una povera bestia al ruolo di pagliaccio sia qualcosa di accettabile. Il web è pieno di filmati di scimmiette vestite da damine e cagnolini con abiti da carnevale…
Pratichiamo da secoli la selezione genetica sui cani inventandoci razze mai viste che soddisfino i nostri capricci: dal combattimento alla cerca nelle tane, dalla corsa alla guardia.

Nei bovini stressiamo la produzione di carne o di latte (un secolo fa le lattifere producevano dieci litri di latte al giorno, oggi trenta); per tacere dello scempio degli allevamenti dei volatili da carne, delle ovaiole e dei suini.
Tempo fa qualcuno mi raccontava (ed era serio), come per il cavallo non fosse una forzatura o una sofferenza farsi inchiodare ferri sugli zoccoli, tenere in mezzo ai denti un morso d’acciaio, farsi caricare sulla groppa un sacco di patate di 80 chili e muoversi a comando ad andature innaturali: “E’ nato per questo” (cit.).
Noi fatalmente dividiamo il Regno in animali di serie A e di serie B. I ‘pucciosi’ da una parte (maledetto Walt Disney); ragni, lombrichi e scarafaggi dall’altra. E pensare che senza lombrichi saremmo già tutti morti da un pezzo.
Diciamo allora che siamo un po’ tutti “animalisti del distinguo” e comunque è purtroppo abbastanza raro vedere gente che si rapporta agli animali rispettando al cento per cento la loro naturale indole, quasi fosse solo roba da etologi, tipo Lorenz e Morris. A proposito di scienza: c’è il grande capitolo della sperimentazione animale; lì come la mettiamo? Tutti a invocare vaccini, farmaci e valvole cardiache bio, ma poi si sfasciano i laboratori e si minacciano i ricercatori, come se odiassero gli animali. Dato che sono biologi, magari li amano nel modo più giusto.
Alla fine, volendo estremizzare, l’unica via per essere davvero coerenti sarebbe imitare quei monaci giainisti che stanno immobili per timore di calpestare qualche minuscola e innocente creatura. Loro sì, che sono animalisti davvero e possono puntare il dito. Ma non lo fanno, loro, perché sono avanti e hanno capito che l’animale uomo va un po’ compatito.
