Come si può ricordare, in maniera intensa e scanzonata insieme, la nascita della propria figlia oggi trentunenne

Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista
Il 28 marzo del 1990 mi trovavo in Germania già da tre mesi. Poco dopo Capodanno ero partito con un biglietto di sola andata. All’aeroporto di Bonn nevicava leggermente, il taxi mi portò davanti a quella che per tre anni sarebbe stata la mia nuova casa. Era un bell’appartamento su due piani, ammobiliato con discreto gusto. Poggiai la valigia a terra, gli scatoloni spediti dall’Italia erano già arrivati ed erano accatastati con ordine. Sul tavolino del soggiorno una bottiglia di spumante e due coppe, con un bigliettino della società: herzlich willkommen. Un’immagine tristissima, dato che ero solo.
L’anno precedente, dopo aver lavorato con i colleghi tedeschi ad alcuni progetti internazionali, mi fu proposto di trasferirmi presso la casa madre per far parte del neonato gruppo di marketing strategico, che avrebbe portato l’azienda nel campo della diabetologia, fino ad allora inesplorato. Interruppi il mio rapporto di lavoro con la filiale italiana e venni assunto con contratto tedesco, a condizioni molto favorevoli. Tutto si era svolto con una velocità che mi lasciava frastornato. La decisione, condivisa con mia moglie, prevedeva che anche lei lasciasse il suo impiego e partissimo insieme: lei parlava bene il tedesco ed era contenta di trascorrere tre anni in Germania.
Verso la fine dell’estate scoprì di essere incinta. All’inizio si trattava solo di decidere se far nascere la bambina a Milano o a Colonia, ma dopo qualche mese si rese necessario il riposo assoluto. Ne parlammo e lei disse che non c’era motivo di rinunciare e che la mia presenza al suo capezzale non sarebbe stata di particolare aiuto, considerato che c’era sua madre con lei. Così iniziai la mia avventura di emigrante.
Il 28 marzo del 1990 era una data da tempo inserita nel mio calendario. In una riunione del board, assieme a un collega, avrei dovuto illustrare il piano di marketing per il lancio di un nuovo antidiabetico orale nei Paesi del Mediterraneo. Ci avevo iniziato a lavorare in Italia, era la mia occasione. Il board era composto interamente da dirigenti tedeschi, io studiavo la lingua da un paio di mesi con poca assiduità, ma avevo preparato il mio primo intervento in tedesco.
Quella riunione sarebbe rimasta nel ricordo dei presenti per almeno un paio di ragioni.
Si svolgeva nel palazzo più antico della sede storica dell’azienda, in una grande sala rivestita di legno scuro e con le pareti adorne dei ritratti ad olio a grandezza naturale dei padri fondatori della società: sguardi severi dietro baffi spioventi e favoriti, panciotti e abiti austeri. Legno scuro, marmo nero: faceva molto terzo reich, non era un ambiente rilassante.
Prima di me avrebbe dovuto parlare un giovane collega inglese. Da poco arrivato, Jonathan era simpaticissimo e avevamo fatto subito amicizia anche perché unici due stranieri del nostro gruppo. Prima di lasciargli la parola, un direttore fece una lunga premessa per descrivere i risultati deludenti del business nel Regno Unito. Le ragioni erano note a tutti, ma lui insistette e in breve calcò la mano svelando il suo palese disprezzo per la terra di Albione, portando esempi offensivi.
Parlava in tedesco, ma io capivo quasi tutto e sapevo che Jonathan aveva studiato la lingua abbastanza per capire: lo guardavo di sottecchi, preoccupato, ma lui non muoveva un muscolo.
Ad un tratto, con un movimento rapido e fluido, Jonathan si alzò. Era alto, allampanato e molto, molto inglese nell’aspetto. Per qualche secondo non disse nulla, raccolse le carte davanti a sé con molta calma, poi guardò ad uno ad uno i presenti attorno al grande tavolo di quercia e disse, in perfetto tedesco: “1966, Wembley: 4-2”. Io lo guardavo come la mucca guarda il treno, ma gli altri dopo un attimo capirono e, avendo temuto ben altra reazione, si rilassarono. Era il risultato di una storica vittoria inglese sui tedeschi sul campo di calcio. Ci furono risate di sollievo e pollici alzati, ma Jonathan prese le sue carte e senza salutare si avviò a grandi passi verso la porta. L’aprì e, girandosi, gelò tutti dicendo: “By the way, two wars”.

La porta sbattuta da Jonathan, diavolo d’un uomo, lasciò la sala in un silenzio tombale e io che pure l’avevo adorato per il suo splendido e orgoglioso gesto, non osando alzarmi ad abbracciarlo per codardia, pensai che ora toccava a me ascoltare il preambolo del direttore sui Paesi del Mediterraneo, prima che io iniziassi a parlare: già mi vedevo come Guglielmo Oberdan, giustiziato dagli austriaci a Trieste mentre grida: “Viva l’Italia”.
Invece la porta si aprì e vidi Valeria, una collega, con gli occhi sbarrati che mi faceva dei segni imperiosi. Era impensabile disturbare durante una riunione del genere e dal mio posto cercai a gesti di mandarla via, ma lei si piantò nello specchio della porta con le mani sui fianchi e disse che al telefono c’era mia moglie e che stava per nascere mia figlia.
Un attimo di esitazione, poi l’incitamento dei capi, i loro auguri: con molta meno calma dell’amico inglese raccolsi le mie carte e le mie diapositive e corsi fuori.
Mia moglie era alla Mangiagalli di Milano da alcuni giorni e il monitoraggio del liquido amniotico aveva fatto decidere il professor D’Alberton per un cesareo urgente, l’indomani mattina.
Erano le quattro del pomeriggio e stavo già per correre in aeroporto senza passare da casa sperando di trovare un volo qualsiasi, quando Valeria mi bloccò con un gesto della mano. Alzò il telefono, chiamò la Lufthansa e mi diede una lezione di efficienza teutonica. Non c’erano posti sui voli per Milano, ma si infuriò a tal punto che credetti mettesse di mezzo il cancelliere Kohl, in un crescendo di: “Voi non vi rendete conto…fatemi parlare col vostro superiore!”. Ci capii poco, ma due ore dopo ero seduto in prima classe con una hostess che mi faceva gli auguri offrendomi una flûte di champagne.
Il 28 marzo 1990 finì così e la mattina dopo ero nella sala d’attesa della clinica.
Ad un certo punto uscì un’infermiera sorridente che portava una creatura coi capelli rossi e i piedi minuscoli: non per dire, ma nonostante fosse notevolmente sottopeso era proprio carina, neanche tanto stropicciata.
L’infermiera mi disse che era andato tutto bene e prima di accompagnarmi da mia moglie mi chiese il nome da scrivere sul registro: avevamo deciso per quello di mia mamma, Anna Maria. Nel dubbio che potesse sbagliare specificai, aiutandomi col labiale: “Anna-staccato-Maria” e lei stava scrivendo davvero così, condannando la pargola a un futuro di scherno.
Così saltai a piè pari la mia relazione in tedesco davanti al plotone di esecuzione, rimasi a Milano per tutto il tempo dell’incubatrice e poi a casa con le due donne, che qualche mese dopo avrebbero preso – anche loro – un biglietto di sola andata per Colonia.
L’anno scorso, a casa dei miei, ho trovato una scatola con vecchi documenti, tra cui il passaporto di mia mamma, che è morta quando avevo un anno e non ho mai conosciuto: si chiamava Annamaria, tutto attaccato.
