Comunque lo si chiami, rappresenta un distacco, che pochi come il nostro autore, annotando alcuni momenti della sua recente esperienza, sanno raccontare con parole che vanno giù in fondo
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico
Svuoto casa -e svuoto i ricordi- perché iniziano i lavori (finalmente) dopo più di 5 anni dalla scossa di terremoto che ci ha messo in ginocchio.

1 febbraio
L’anziana genitrice che sta riprendendo peso e tono mi ha detto che scende nel vialetto del condominio a passeggiare insieme alla sua amica e vicina. Si fanno compagnia, sostegno e conforto. Non ci avevo mai pensato prima di oggi, ma ora è lei a scendere sotto casa. Io da bambino ci andavo a giocare, lei adesso ci va a camminare, per far esercizio in sicurezza.

Siamo venuti ad abitare in questo condominio all’inizio del 1971. Facevo la terza elementare. Ritornavamo a Roma dopo qualche anno in cui avevamo vissuto a Latina. Ricordo la mattina in cui andai con mia mamma a salutare la classe – credo fosse marzo. Con il fatto che io sarei andato via, in quello scorcio d’inverno mi fu dato per primo da leggere un libro della neonata biblioteca di classe – era un libro in cui si raccontava di una favilla, di un piccolo frammento di fuoco che attraversa il tempo e lo spazio dando luce e calore. Non c’entra granché, ma ho un ricordo netto del capodanno del 1970, forse sollecitato dalla storia di quella “favilla”. Abitavamo in una casa, a Latina, al nono piano. Nelle giornate più belle dalla finestra si distinguevano le sagome delle isole Pontine. La sera, mentre si accendevano le candeline scintillanti per salutare il vecchio ed accogliere il nuovo, mi domandavo cosa sarebbe successo al giro di boa della decina. Di fatto nulla, mi resi subito conto stando sul balcone con la stellina accesa in mano. A mezzanotte nulla era cambiato, sebbene fossi in curiosa attesa. Ne rimasi deluso e accendere le miccette con la cicca della sigaretta di nonno non riusciva a mitigare la delusione. Poi i fuochi che da lassù vedevamo portarono nel consueto i miei desideri e le mie aspettative, smettendo presto di far domande, inutili se non irritanti, al tempo.
Ricordo bene il trasloco, l’arrivo qui a casa e nel condominio con le piante appena interrate e il prato che nasceva, le aiuole con le rose. Ero contento di aver uno spazio all’aperto tranquillo in cui giocare, nel vialetto del condominio. Erano case nuove, avevano richiamato molte giovani coppie e quindi in molti bambini ci si ritrovava a giocare “di sotto”. Alcuni condomini astiosi si lamentavano che noi si giocasse e si facesse rumore, con la palla e con le voci. Ma la palla rimbalza e le voci si usano per chiamarci, nessuno gioca all’aperto silenziosamente. I nostri genitori e il regolamento era dalla nostra. Occorreva solo rispettare l’orario e le aiuole. Non si poteva calpestare il prato e non si poteva giocare prima delle 4 del pomeriggio.
Quelle regole e quel rispetto hanno trasformato lo spazio comune in luogo percepito come proprio, anche perché ci si innestano ricordi che sono storie. Una avvenne all’inizio…
C’era, tra i vari, un pino piantato di fronte a dove sta il balcone cui si accede dalla porta- finestra del soggiorno. Era un albero giovane come le case, il giardino, la nostra vita qui. Chi l’aveva piantato s’era preoccupato di sostenerlo e indirizzarlo verso l’alto con tre pali di sostegno convergenti, le cui estremità erano legate insieme a sorreggere la pianta per avviarla al suo futuro nel migliore dei modi. Nel marzo 1971 fece tanta, tanta neve. La neve – a Roma e a marzo nessuno poteva immaginarla. A casa da me la neve è sempre stata festosa. Stavamo tutti noi dietro quella vetrata della porta-finestra a veder fioccare. Mamma, papà, i miei nonni. In silenzio perché la neve va assaporata con gli occhi ascoltandola scendere. La chioma aumentando di peso s’inclinava verso il basso e il fusto che già faticava normalmente a sostenerla iniziò ad arcuarsi facendola pendere. La chioma tondeggiante di quel pino pesava sull’esile tronco che si piegava man mano che la neve s’accumulava. In breve il pino iniziò a dare cenni di cedimento. A casa eravamo giunti da poco e non tutto era stato messo a dimora. Il lungo bastone per le tende del soggiorno era ancora appoggiato al muro. Papà lo prese, mamma gli mise una coperta sulle spalle e lui uscì per liberare l’albero dalla neve. Il tronco faticò a riprendersi, ma rami e aghi ripresero la liberà di ergersi liberi. Vegliammo la situazione incerti se l’intervento avesse mai potuto sortire effetti. La mattina dopo, quando scendemmo giù a giocare nel vialetto imbiancato, l’alberello aveva recuperato la sua postura – esile ma dritto. L’albero c’è ancora – alto e bello, il più alto e bello, sul vialetto del condominio dove io bambino giocavo, mia figlia ha imparato a camminare e ora l’anziana genitrice va a far esercizio, passeggia con il bastone, che sembra proprio non sappia usare e conversa con la sua amica Lucia. Si conoscono ormai da quasi 55 anni e si sostengono a vicenda anche mediante i ricordi – più forti del bastione, più sicuri dei passi con cui passeggiano oggi. Il tempo passa, lo spazio resta. Qui io ci giocavo da piccolo, ora lei ci passeggia da anziana. Difficile resistere alla tentazione di immaginare una circolarità esistenziale, osservando come gli estremi della vita si lambiscono.
Ho sentito l’anziana genitrice quando ha aperto il portone dire a Lucia “Grazie dello stimolo “ – perché è lei che l’aveva sollecitata a scendere e camminare. Dentro casa, con il berretto ancora calcato in testa, gli occhiali scuri e la mascherina a coprire, prima di andare a togliersi il piumino si avvicina e orgogliosa mi fa, soddisfatta con il sorriso nelle parole: “Tre quarti d’ora, sempre di continuo”. Poi andando in camera, ha aggiunto tra sé, come se potessi non sentirla in questa micro-casa, “ce l’ho fatta, va’, dissimulando una volta da sola un minimo d’affanno.
8 febbraio


Sveglio dalle 4 a far pacchi con i libri e le carte… sembra un po’ un’ossessione, quella dello spazio. Spazio per i libri, spazio per leggere e scrivere, e spazio per la memoria. Spazio per le parole che sto inscatolando ormai pressato dall’urgenza senza un ordine, solo segnando sullo scatolone dove stavano. In alcuni momenti son certo di farcela, in altri mi scoraggio e penso che mai e poi mai ne verrò a capo. La cosa curiosa è che a volte la passione per l’immateriale ti obbliga a esperire o a esprimere una fisicità di cui -avvertendone l’ostica consistenza ti sorprendi. Ma solo per un attimo. Si, perché costituisce un po’ il corrispettivo della parola libro – sia il testo “leggero” opera di ingegno di un autore, sia il pesante insieme di fogli di carta cuciti assieme e tenuti uniti e protetti dal tempo mediante una copertina…
Sveglio da ormai due ore e solo una caffettiera in corpo. Corpo che fatica e si lamenta. La schiena e l’occhio – la carta e le parole scritte…
13 febbraio
Mi vado convincendo che per fare i traslochi serva o una potente anestesia o almeno antidolorifici. In assenza di medicinali, posso affermare che un costante livello di alcol aiuta, mentre la solitudine nuoce. Mi osservo e mi rendo conto che rallento per rinviare il distacco dalle cose e dalla casa che, così come è ora, l’hanno vista persone che ho amato che non ci sono più ma che ancora vivono tra queste mura. Mi vengono in mente due bellissimi racconti di Corrado Alvaro che furono riproposti da Vie del Vento nel 2007 intitolando il volumetto “Viaggi attraverso le cose”.

Magari esagero. Ma anche in occasione di altri traslochi -me ne rendo conto adesso ricordando dei precedenti e osservandomi stavolta- che mi attardo. A volte rallentare o esser in ritardo può nascondere il desiderio di trovare una via di fuga, un modo per dilatare il tempo, espandere l’ora, rinviare il distacco.
Domani è lunedì. Non ricordo una settimana più caotica e densa di questa che per iniziare…
14 febbraio

Non so se sia corretto chiamarlo trasloco. Forse sgombero è più appropriato. In qualche modo restiamo sulla soglia. Le cose vanno via, casa si svuota, ma noi torniamo qui appena saranno finiti i lavori per ripristinare casa dai danni inflitti dal terremoto.
Oggi è tante cose: il primo giorno con i trasportatori, San Valentino, la Giornata Mondiale dell’epilessia. Mi sento coinvolto su tutti i fronti.
Buona giornata…
15 febbraio
Ho trovato tante cose. Certo – cose di casa. Foto che non sapevo. Assemblaggi di cose che da soli raccontano di vicende. In una scatola tutti i farmaci che prendeva alla fine mia nonna. Piccole collezioni inaspettate – le monete di nonno, i francobolli a cui sembrava dovessi appassionarmi e che non divertivano nessuno qui a casa – ma ero stato associato a un circolo filatelico. Appunti: tanti, diversi, inutili. Liste della spesa. Agende iniziate ma poi lasciate sole a recare inutilmente impressi i giorni degli anni che trascorrevano -che sono trascorsi- colmi di vicende ignorando quelle pagine giornaliere vuote. Inviti a conferenze, presentazioni, seminari. Badge di congressi. Biglietti da visita. Depliant.

Ho trovato cose che sapevo di avere e che non mi spiegavo di non ritrovare – ma è ormai quasi un decennio che vivo lo strabismo del pendolare tra due città e ne patisco gli effetti. Andando e venendo, ogni di volta in volta sono spoletino fino a Orte o romano fino a Orte, a seconda del senso di marcia.
Ho aperto una scatola e ho visto papà accanto a mamma. Una foto in biancoenero che feci, sviluppai e stampai io.
“Chissà come verrà bella” – mi dice l’anziana genitrice, un po’ anche lei patendo il vuoto di queste stanze, vedendole un po’ come le ho viste io e ricordandole come mi ha raccontato lei averle abitate prima di me. In realtà non “verrà” più bella, perché si tratta di un ripristino com’era, dopo le pesanti offese del terremoto. Quello che la renderà davvero bella sarà rientraci, starci insieme e riannodare i fili del discorso abitandola, arredando le stanze ora vuote con i vecchi mobili, con le nostre voci e con le luci dei nostri sguardi.