Cambiare per la Treccani ha diversi significati. Per me, come credo la maggioranza dei mortali, riguarda due aspetti; quello fisico e quello interiore.
Del primo non mi sono mai curata più di tanto, non solo perché- nonostante tutte le innegabili magagne dell’invecchiamento e l’inevitabile flaccidume della pelle – io non vedo enormi differenze fra i lineamenti del viso da neonata e quelli attuali (vedi copertina), ma forse perché dopo una considerazione di Dino Buzzati su di me sedicenne, mi ritenni più che soddisfatta… a vita.
La cosa andò così: mia madre, allora solo 34enne e di una bellezza strepitosa conscia di possedere, un pomeriggio alla Galleria Cortina chiese al suo amico se era più bella lei o la sua “figliolina” (già, disse proprio così anche perché, tedesca, non era perfettamente padrona della lingua italiana). Una domanda da non porre mai (tipo il classico “vuoi più bene alla mamma o al papà?”) ma lei la fece, incurante dell’effetto che la risposta, scontata per entrambe, avrebbe potuto avere sulla mia insicurezza di adolescente. Ma Buzzati, invece di dirle “tu sei inequivocabilmente bella e tua figlia é, che so… un tipo” (che già avrebbe significato tanto per me), alzò gli occhi dal libro che stava leggendo e poi emanò il suo giudizio. La parte che riguardava mia madre fu in effetti come ce l’aspettavamo, ma la seconda fu sconcertante. Disse esattamente riferendosi a me: “Lei é una persona che se la vedi una volta e la guardi negli occhi, e poi la incontri dieci anni dopo tra la folla (usò questo termine, ndr), non puoi non ricordarti di averla già vista una volta nella vita”. Quindi riabbassò’ lo sguardo e tornò alla sua lettura. Rimanemmo male tutte e due: lei per non sentirsi ripetere che era la più bella del reame; io, incredula, perché immaginavo come mia madre si sentisse e mi spiaceva per lei, nonostante i nostri pessimi rapporti.
Se fino ad allora non mi ero preoccupata del mio aspetto fisico, da quel momento in poi non ci pensai praticamente più. Il “complimento” ricevuto da Buzzati (che non mi stava neppure granché simpatico) sarebbe stato sufficiente per sempre.
E poi io ero molto più attenta al mio “io interiore”.

Già, “dentro” com’ero e come sono diventata? Partiamo da un presupposto che scandalizza molti: io, nonostante sia una giornalista scientifica, “credo” ai segni zodiacali. O meglio, sono convinta ci sia una base che accomuna me con tutti i Cancro. Ovvio, è fondamentale l’ascendente e soprattutto l’ambiente, l’educazione, la gente che si frequenta. Voglio dire, se avessi una gemella vissuta in Malawi (Paese che ho visitato e conosciuto, e dove ho adottato un bimbo a distanza) lei sarebbe inevitabilmente diversa da me. Ma certi elementi- l’emotività, l’umore instabile, l’attaccamento al passato, la permalosità ecc cc – quelli rimangono. Anche se ci puoi lavorare sopra.

Se a ciò aggiungi che ero una bambina depressa, poi diventata una donna bipolare (ai miei tempi non si era in grado di pensare che anche i piccoli fossero depressi), si capisce perché fossi considerata “strana”. Però avevo un asso (anzi due) nella manica: l’ironia e l’autoironia, per cui anche oggi, nei momenti peggiori, riesco a vedermi dal di fuori e farmi una risata. Non importa se amara.

Soprattutto imparai, da autodidatta diciamo, che nei momenti out era meglio sottrarmi alla compagnia dei tanti amici e amiche e restare da sola: avrei avuto modo di tornare ad essere la reginetta della festa appena tornata nella fase in. Certo, l’analisi mi aiutò, ma in fondo sono ancora la stessa, anche se oggi dispongo di strumenti adatti per non arrendermi quando mi sento annaspare. Perché è così che mi sento.

Per quanto riguarda le emozioni, di cui mi nutro, le ho però quasi sempre tenute per me, esercitando un autocontrollo davvero eccessivo. Puntavo l’obiettivo e lo raggiungevo, facendo finta che il resto mi scivolasse addosso. La cosa più falsa che ci fosse. Con gli anni ho cominciato a scrivere su un diario e poi, incredibile, anche i social mi hanno spinto a parlare di me.
Forse il mistero e l’ “imprevedibilità” della persona Minnie ci hanno rimesso, ma ora sento che va bene così. Probabilmente perché il tempo passa (eccome se passa!) e come dicono i vecchi “alla mia età posso dire tutto ciò he mi pare”. Il problema per me è stato riuscire a farlo, indipendentemente dall’età.

Oltre ai diari e a Facebook, devo dire grazie agli Editoriali di questa rivista che a mano a mano, negli ultimi quattro anni, mi hanno spronato a parlare sempre più di me, scrivendo alcune cose che mi ero tenuta sempre “dentro” o confidato, ma solo di recente, ad alcuni dei tanti amici che ho la fortuna di avere.
E questo è già un grosso cambiamento. Ma torniamo alle emozioni, praticamente l’unica cosa che credo valga la pena vivere all’ennesima potenza. Le emozioni, belle o brutte, le facevo esplodere dentro di me perché ero una bambina che non piangeva, non urlava, non faceva i capricci, anche se registravo e percepivo tutto, come fossi senza pelle. E poi anche da ragazza e da adulta sembravo impenetrabile, come custode di arcani segreti.
Anche adesso non riesco a piangere (fatta eccezione per la morte dei miei cani), ma rido. Rido tanto ed è per questo che uso solo mascara waterproof: quando rido di cuore qualche lacrima compare.
Una delle maggiori emozioni consiste- da sempre- nel vedere la mia firma sotto un articolo. Anche la decina e oltre di libri pubblicati mi ha “emozionato”, ma, confesso, molto meno. Non so perché: forse perché mi considero più giornalista che scrittrice?

Ora sta succedendo una cosa inaspettata e meravigliosa: il nuovo libro- quello che sta per uscire- (vedi pagina successiva) mi emoziona. Tanto, tantissimo. E credo di sapere il motivo: per la prima volta parlo di me, in prima persona, praticamente come sto facendo con questi editoriali di Generazione Over 60. E sono ansiosa di sapere se “piacerò”. E’ una sensazione nuova e bellissima. Conferma che si cambia sempre, vivaddio. Come diceva Buddha “l’unica costante nella vita è il cambiamento”. Umilmente sottoscrivo.
Minnie Luongo