Nicola e la vespa

 Un incontro casuale con un ottantenne, il ricordo di una Piaggio rossa e la malinconia con cui è iniziata la giornata prende un’altra piega. Un racconto che sa di poesia … perché lo è.

Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico

Ho fatto inversione a “u”, attendendo che la strada fosse libera. Un ripensamento e una voglia. Il fatto di esser in anticipo e di non disporre di un posto del tutto mio mi aveva sollecitato a uscir di casa per tempo rispetto all’appuntamento. Ci sono giornate che ci si sente più soli. Stamane il giorno ha preso questa piega quasi da subito. Il fatto di non avere un locale dove star seduto a bere a scrivere e a guardare la vita attorno mi manca. Un’osteria, un pub.. non so dire. Un posto, vorrei un posto. La colazione l’avevo fatta all’alba. Questo mi legittimava a rendermi indulgente cura di me con una birra e un tramezzino.

Parcheggio la vespa di fronte al bar, nello spazio tra due macchine.

C’erano anche dei tavoli fuori, sulla via, un po’ troppo trafficata. Di sedermi non ne avevo voglia. Consumo al banco. Intanto dalle vetrate mi guardo in giro.

Fuori uno dei tavolini era occupato da un giovane che, bermuda e occhiali da sole, aveva già consumato un espresso e stava ora dedicandosi al suo cellulare. Un tavolino era vuoto e il terzo invece, quello più vicino alla porta di ingresso del locale era occupato da un uomo anziano, direi sull’ottantina. Anche lui aveva ordinato un caffè che aveva bevuto e ora, appoggiato a una stampella come se fosse un bracciolo della sedia, alternava tra bocca e mano, quasi furtivamente, una cimetta di toscano. La vespa era parcheggiata di fronte a dove stava seduto.

Quando sono uscito dal bar per andarmene, ho preso il casco dal bauletto e infilato la chiave per accendere, il tutto molto rapidamente. Un po’ di fretta ce l’avevo…

Faccio per mettere in moto e incrocio lo sguardo di quell’uomo. Camicia a scacchi, smanicato blu, pantaloni comodi grigi. Mi fissa con occhi vivaci e umidi. Con la mano sinistra, quella appoggiata alla stampella, mi indica. Un gesto che un po’ era per attirare la mia attenzione, un po’ era per se stesso, come se stesse riconoscendo qualcosa che affiorava dai ricordi…

“Costava un po’ più di un milione – mi dice- La Piaggio stava a viale Trastevere. Io la comprai rossa. Un po’ più di un milione. Bella…”

Mi ricordo di un concessionario Piaggio a viale Trastevere e glielo dico, smontando dalla vespa. Metto le chiavi in tasca. Lui ha voglia di parlare e io di ascoltare. Mi serve una storia per contrastare la mia malinconia…

Mi avvicino restando in piedi a quella che con ossimoro si definisce distanza sociale. Lui s’assesta meglio sulla sedia e accentua l’appoggio sulla stampella. In quella mano ha la cimetta di toscano che tiene per sentirne il sapore. Un’estremità ha il taglio di netto, l’altra leggermente sfilacciata per esser stata tenuta tra labbra e denti.. Ci gioca ma non l’accende. La porta ogni tanto alla bocca ma solo per brevi istanti. Il resto del tempo il tabacco ha il rapporto più con la mano che con la bocca.

“Non mi ricordo come si chiamava il negozio della Piaggio. La presi là. GTS. Bella. Più di un milione … Ci volevo andare a pomiciare a Fregene con la mia ragazza che poi è la donna che ho sposato… Facevamo l’Aurelia, che non era larga come ora, era stretta e con le curve. Ora tutte le strade sono larghe e dritte. Un camion trasportava sapone liquido che avevano fatto e poi caricato a via Gela, sull’Appia, questo camion mi aggancia… anzi ci supera e ci aggancia con il paraurti di dietro e ci scaraventa nel burrone. A me, la mia ragazza e la vespa sopra. Siamo rotolati giù. Non un miracolo, due miracoli. Salvi tutti e due, ma la vespa… L’ho portata per vedere che fare… l’assicurazione in prima battuta mi ha detto “ti do mezzo milione”. Mezzo milione… C’avevo una persona, un amico che poteva mettere le cose a posto. Così alla fine mi offrirono un milione e accettai”.

S’interrompe perché ricorda. Voglio dire che mentre mi parla vede quello che mi sta raccontando. La cimetta va alla bocca. Se fosse accesso quel pezzetto di toscano adesso lo starebbe aspirando, ma invece lo mastica per un attimo e risparisce nella mano. Annuisce, come per dar più peso al suo racconto.

Che anno era?

Non risponde subito, riflette e ricostruisce.

“Era il 1955. Perchè per sette anni ci ho fatto l’amore e poi l’ho sposata nel 1962. Con quel milione ci ho comprato quella casa, e indica un palazzo ben al di là della strada. Era un altro mondo… che tempi rispetto a oggi… il giorno e la notte, figlio mio, se ti raccontassi…”

Io sono nato nel 1962…

Mi sorride contento perché la coincidenza decimale ci avvicina. “Io mi ci sono sposato. Ho un figlio, che è nato quattro anni dopo. Mio figlio ha conosciuto quattro donne, l’ultima è una calabrese, un capolavoro. Con questa qui ci ha fatto un figlio, Niccolò. Io sono nonno…”

Orgoglio legittimo. S’interrompe e si ferma in un’altra pausa. Forse lo sta “vedendo” perché per un attimo è come incantato, sospeso rispetto al nostro dialogo. Non porta fede alla mano. Della moglie non parla, del nipote e della compagna del figlio sì. Non faccio domande. In realtà mi sta regalando un po’ della sua vita e non posso né voglio incalzarlo.

Viene qui spesso? Magari una volta ci si trova qui e mi racconta come era il quartiere…

“Tutti i giorni, è la mia passeggiata. Vedi?” e mi indica meglio il palazzo dove vive, “io abito là.”

E’ uno dei palazzi che s’affaccia sulla piazza il cui giardino è stato da poco attrezzato, vicino alla scuola. C’è un punto di quella piazza in cui ci sono accatastate con ordine delle sedie di plastica e un tavolinetto. A seconda di come gira il sole e il vento, secondando la stagione, a orari fissi il tavolo e le sedie sono vivacizzate da partite e carte e da curiosi che le seguono. Si conoscono tutti e non sono pochi: è un il gruppetto di anziani che ci si dà appuntamento. Più di una volta ho pensato che mi piacerebbe raccontare quelle storie che convergono abitualmente in quei pomeriggi e in quelle partite. Prima o poi lo farò.

Ci va a giocare a carte?

“No, io sto con l’ossigeno io, i tubicini al naso…sedici ore al giorno –lo dice un po’come vantandosi, forse perché per un po’ di tempo riesce a star senza.  “Però tutte le mattine vengo qui, faccio una passeggiata e prendo il caffè e mi fermo per un po’. Io l’avevo detto all’amministratore, teniamolo aperto l’appartamento del portiere, ora che non c’è più. Ci si trova, ci si incontra… una partita a carte… Invece no, l’ha affittato…”

La vespa poi se l’è ricomprata?

“Mai, non ci sono mai più salito, neanche su quella di amici. Mai”, mi dice sorridendo, ma tradisce nostalgia.

Se la ritrovo qui una mattina di queste, mi racconta meglio…

“Si, certo!”

Mi sorride dolce dell’appuntamento, ma non sa se dico sul serio. Saluto, mi riaccosto alla vespa e sto per mettere in moto. Sono nella stessa posizione con cui abbiamo iniziato a chiacchierare poco fa. Lui mi guarda annuendo.

No, non posso andar via così.

Scendo, mi tolgo di nuovo il casco e avvicinandomi gli tendo la mano: “Mi chiamo Andrea”.

“Io Nicola” risponde prendendo la mia. Poi, quasi sotto voce, aggiunge un pensiero: “E’ bello incontrarsi”.

Stavolta devo andare davvero. Ho un appuntamento di lavoro e mi secca andar via. Faccio pochi metri e accosto. Ho le lacrime che mi bagnano la barba. Penso alla fortuna di avere l’anziana genitrice a casa, penso agli altri che hanno storie che nessuno più ascolta, ai transiti anonimi che fanno la vita di tutti, alla “forma della città”, avrebbe detto Pasolini che non abitava lontano da qui.

Faccio una telefonata per dire che sto arrivando. Sto in vespa, è primavera. Dolce tenera malinconica. Privo di storie abiterei il tempo che rimane senza lo spazio per riuscire a vivere.

Winston Churchill (1874/1965) con l’inseparabile sigaro fra le labbra

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