Alcuni sogni sono difficili da raccontare: un’impresa ardua anche per chi è un maestro nelle narrazioni, ma non impossibile. Leggere per rendersene conto!
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico

La situazione era giocosa con i due bambini, di cui forse uno ero io, che giocavano per strada, in un giardino. C’era una luce dorata, che non era consueta. Più in là le mamme. Non c’era folla. A guardare bene il giardino era stato innaffiato da poco. Però scrutando il cielo l’impressione che se ne ricavava era anche che fosse piovuto da poco. Passavano per strada macchine, ma pure biciclette. Le costruzioni non erano basse, bensì slanciate, moderne, con molto vetro che rifletteva l’oro del sole che tutto inondava.

A tratti eravamo adolescenti e in altri momenti ero uno degli adulti che badava i bambini che si trastullavano là vicino alla panchina dove sedevo. Poi guidavo una macchina e c’era traffico. Sembravano tutti come legati ed esitanti. Eppure se non si fosse stati incolonnati in quel modo si sarebbe potuto far defluire quel traffico ovviabile. La segnaletica stradale indicava obblighi e precedenze che non capivo. La luce era abbagliante e forse anche le nuvole basse ostacolavano la vista.

Camminando a piedi sentivo dei versi recitati da voce maschile – era l’Urlo. Chi li recitava indossava uno spolverino liso, un colore indefinito tra il verde e l’ocra, ma era opportuno perché minacciava pioggia. La sua lettura a voce alta era una protesta rispetto all’indifferenza. Le parole che usava erano graffianti, la barba era lunga, ma l’indifferenza restava tale e lui – a contrasto rispetto all’agguerrito e lancinante recitar versi- teneva comunque per sicurezza l’ombrello chiuso con l’impugnatura appoggiata sull’avambraccio. Entrambe le mani reggevano il libro da cui leggeva. Le tasche dello spolverino erano gonfie come fagotti. Le scarpe sotto i pantaloni erano di gomma. Se fosse piovuto si sarebbe bagnato e poteva anche scivolare, se non fosse stato prudente. Stava al centro del flusso delle persone che procedevano in senso inverso a quello della sua voce, e lo evitavano con la corrente del movimento silenzioso che lo avvolgeva senza badar a lui – non più di quanto l’acqua di un torrente si lasci impensierire da un ostacolo che può sommergere. Una scena tragica.
Sì, erano passanti. Alcuni uscivano dalla metro, altri da palazzi molto alti che dovevano esser uffici. Qualcuno anche da un albergo. Forse parlavano un’altra lingua rispetto alle parole di quei versi. Troppo disinteresse. Negli occhi del lettore non si vedeva altro che la sua necessità di leggere a voce alta e la sorpresa che provava accorgendosi dell’impenetrabilità su cui le parole, anche le più taglienti e aguzze e puntute, s’infrangevano. Avevano significato quando lette e dette. Ma lo perdevano perché non c’era ascolto. Potevo vederle fisicamente rompersi e cadere a terra.

Deve esser sabato, perché parecchi sono in strada con birre – per lo più lattine. Non trovo neanche un locale con tavolini fuori. Il marciapiede deve esser libero per la rush hour. Faccio slalom tra corpi – l’urlo s’è fatto lontano. Tento di risalire la corrente. Anche se c’è il mare, qui ci sono meno gabbiani che a Roma, però di gazze se ne vedono davvero molte. Un passero mi si avvicina pericolosamente. Senza senso si sente un’orchestra che suona walzer e polke. Una ragazza e un ragazzo salgono sulle loro sedie per vedere se, oltre la palizzata, si riesca a capire dove sia l’orchestra e se vi sia chi balla ascoltando l’esecuzione. Resto seduto mentre li osservo in piedi sulle sedie accennare buffi movimenti come se stessero ballando a distanza dall’orchestra. Non ricordo affatto di quando mi sono seduto. Provo a ricordare e la musica di botto tace.
Con il silenzio mi sono svegliato. Ho sete. In camera ho acqua gasata al limone. Sono troppe le cose che restano incompiute. Ancora 15 minuti. Li trascorro contando a ritroso da 100 a zero, concentrato anche visivamente sui numeri. In genere mi addormento o mi prendono immagini e situazioni simili a quelle di prima già attorno a 75 – mi scordo di contare e se l’impegno dei numeri prevale mi desto dall’inconsistenza delle figure e ricomincio a retrocedere da 100. La sveglia, dopo 900 secondi che conto senza distrazioni, mi sollecita.