Un’idea di felicità

Il francese Matthieu Ricard, monaco buddista di scuola tibetana, è risultato “l’uomo più felice del mondo”. L’autrice di questo articolo, che l’aveva intervistato, qui riflette su alcune importanti considerazioni circa la felicità.

Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Come ci si sente a intervistare l’uomo più felice del mondo? Mi è successo nel 2010: il mio interlocutore era Matthieu Ricard, francese di nascita e monaco buddista di scuola tibetana per scelta, ma soprattutto protagonista di esperimenti celebri sugli effetti della meditazione. Un personaggio interessante, (questo il suo sito per chi vuole saperne di più: www.matthieuricard.org ) con un passato da ricercatore –  è stato allievo del premio Nobel Francois Jacob, con cui ha ottenuto un dottorato in biologia molecolare – e un presente di traduttore e portavoce del Dalai Lama. 

Matthieu Ricard, risultato essere “l’uomo più felice al mondo”

Un uomo intelligente e decisamente ironico, capace di commentare con un pizzico di scetticismo l’impegnativa definizione nata dagli studi sugli effetti della pratica meditativa sul cervello cui ha partecipato. “Tutto è cominciato con una battuta in un documentario australiano, poi ripresa dal quotidiano Independent. Ma se mi devono definire in qualche modo, meglio ‘il più felice del mondo’ che il più infelice. No?” ha commentato Ricard con scetticismo molto francese.  Quello che è successo è che in un esperimento realizzato da Richard Davidson dell’Università del Wisconsin-Madison, in cui si misurava con la risonanza magnetica funzionale l’attività cerebrale di un gruppo di esperti in meditazione tibetana, Ricard ha registrato uno straordinario – 0,45 su una scala che va dal + 0,3 dell’infelicità al – 0,3 di uno stato di beatitudine. E la definizione, prevedibilmente, ha attecchito: “ Se non altro”, ha osservato ancora il monaco, “Sono il più felice di quelli che sono stati misurati, che sono pochi”.

Ma che cosa significa “ essere felici”? Il buddismo, o perlomeno il buddismo tibetano, insegna a distaccarsi dalle emozioni osservando ciò che avviene nella nostra mente, e i diversi stati emotivi, senza esserne influenzati. “Come fa la luce, che non diventa preziosa o sporca a seconda che illumini spazzatura o pietre preziose”, spiega Ricard. “ O se vogliamo, come uno specchio che resta se stesso qualunque cosa rifletta”. La felicità insomma dipende dal nostro atteggiamento, dalla capacità di accettare le emozioni dolorose senza farcene travolgere e quelle positive senza manifestare un eccessivo attaccamento. Anche se possiamo aiutarci dando spazio all’empatia e all’altruismo, l’atteggiamento compassionevole nei confronti dei propri simili e in generale delle creature viventi che è una delle basi della filosofia buddista.

Vista così sembra più serenità che felicità come la intendiamo di solito. Ma il problema è anche semantico. Se gli psicologi positivi -e non solo loro – parlano ormai da anni di happiness studies, spesso si ragiona su circostanze, eventi e situazioni associate alla felicità più che sull’idea di felicità in quanto tale.  Che resta comunque inafferrabile, anche perché nelle diverse lingue si usano termini con origini e accezione diverse.

Uno studio apparso nel 2016 sulla rivista Frontiers in psychology coordinato da Antonella Delle Fave dell’Università di Milano, che ha coinvolto partecipanti di dodici paesi in cinque continenti, ha registrato oltre 7.500 definizioni diverse di felicità, E se la parola inglese happy nasce da una radice germanica che fa riferimento al concetto di fortuna, il latino felicitas che sta alla base delle definizioni neolatine è legato al concetto di crescita e fertilità, e descrive quindi un processo piuttosto che un obiettivo raggiunto.

 E, in effetti, molte ricerche confermano che a farci stare bene non sono le emozioni forti, i successi o la ricchezza, ma la capacità di sviluppare progetti e di costruire e mantenere relazioni umane solide.  Lo studio appena citato, ad esempio mostra che una quota importante del campione definisce la felicità come armonia, declinata in varie sfumature, come pace interiore – una definizione che ricorre spesso tra gli italiani intervistati – o equilibrio.  Un atteggiamento che permette di integrare anche gli aspetti negativi dell’esistenza e spiega perché, come emerge da varie ricerche, anche persone con seri problemi di salute o disabilità possano sentirsi comunque felici.  E’ un atteggiamento che sembra rimandare alla tradizione orientale, e invece fa parte anche della nostra storia, dall’ideale stoico di equanimità e distacco al concetto epicureo di atarassia, riferito alla capacità di mantenere equilibrio e serenità anche in situazioni non piacevoli.

Un atteggiamento che mi è indubbiamente congeniale: personalmente ho sempre ammesso di preferire, al cuore che salta in gola, quelle che mi piace definire “ emozioni deboli”.

Ma tra i compiti assegnati per questo numero di Generazione Over 60 c’era la ricerca di un ricordo felice, e io – che mi sento in colpa se non faccio i compiti – ne ho trovati due, molto lontani nel tempo ma ancora vivi. Il tragitto che mi riportava a casa dall’ospedale dopo un lungo ricovero, molti anni fa a pochi giorni dal Natale, con le luci che sfilavano fuori dal finestrino e la certezza che quell’angoscia fosse finita. E poi il rumore degli zoccoli del pony col quale passeggiavo per villa Glori, nei più bei pomeriggi che una bambina possa immaginare, con l’odore delle foglie e lo stormire degli alberi. In fondo forse aveva ragione Schultz, la felicità è davvero un cucciolo caldo.

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