Nella stanza con mamma: i giorni dell’attesa
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico
Ha suonato alle 15.30, puntuale. Che fosse già ora non me ne ero reso conto – immerso nella lettura e nelle distrazioni che quelle pagine mi stavano suggerendo non mi ero accorto che fosse già ora. Ho aperto all’infermiere, spostato la poltrona, avvicinato le cose che potrebbero esser utili all’anziana genitrice il tempo della flebo. L’infermiere dopo essersi lavato le mani ha verificato l’ago, ha messo l’ampolla di fisiologica regolandone il flusso, misurato pressione e ossigenazione -entrambe soddisfacenti.
“Come si sente signora?” E lei rispondendo continua a fare il paragone con quanto ricorda di aver vissuto 7 anni fa. Il ricordo – mi tocca a volte correggerne la forma, ma non il significato. A me resta forte la sensazione che allora ci siamo impegnati tanto e ne siamo usciti, ma non sapendo come oggi permangono timori e pensieri cupi, che ci comunque ci dissimuliamo a vicenda.
L’infermiere è stato il tempo necessario e lo rivedremo domani. La flebo la staccherò io, come sempre.
La flebo goccia, ogni tanto vado a controllare se è da regolare il diffusore.
Mamma sonnecchia in poltrona, la tivù accesa, vicino ha tutto quello che serve e tra un po’ le porterò un tentativo per far merenda, ammesso che riesca. A pranzo le ho proposto polenta con formaggio e un pochino è andata giù. Piccoli successi -o almeno non sono complete disfatte, ma siamo lontani dal sufficiente.
Leggo e rileggo cose su Covid-19. Lo faccio nella stanza in cui studio e scrivo, dove i segni del terremoto sono visibili, di intralcio al movimento e forse anche alla serenità: solo qui sono 8 cristi -puntelli a croce- cui è affidata la mitigazione degli eventuali effetti di un’altra scossa sismica. Come se la ripresa del blocco di liquidi e solidi nella deglutizione dell’anziana genitrice non sia una scossa. Come se Covid-19 non fosse una scossa anch’esso. Le cose normali e consuete – ad esempio la sequenza abituale con cui i muscoli si muovono per ingoiare- diventano diverse, differentemente praticabili, a volte impossibili, altre da evitare. Come i luoghi affollati, o andare al cinema o in biblioteca.
Non è questione di indulgere al pessimismo o di voler esser ottimisti o -ironia del termine- di pensare “positivo” per “tamponare” la situazione. Il realismo è in questa stagione necessariamente amaro. I pensieri son cupi e la preoccupazione guadagna spazio dentro e fuori casa. Io, qui con l’anziana genitrice, siamo soli e senza aver spazi né tempi sicuri…
I pensieri. A volte diventa faticoso anche fissarli. Con tutte queste incertezze è più facile distrarsi, assentarsi dal foglio bianco, dallo schermo dell’IPad, dalla pagina di giornale, dal margine del libro su cui a matita ho appuntato qualcosa che con il testo ha un nesso, ma che poi mi ha fatto estraniare da qui e da ora. Cuore gonfio contrasta efficacemente i residui di lucidità e sollecita l’assopimento della coscienza, come un’anestesia per legittima difesa. Serve fantasia, immaginazione. A cosa m‘appoggio? Sono anche a dieta e non voglio placarmi con sapori e odori sprecando i risultati conseguiti. Anche su questo faccio inutile esercizio di disciplina. Però, anche se marginale, qualcosa che funziona devo pur poterla metter a bilancio.
A volte accade che una sensazione, un fatto, un suono nel caso specifico, lo accogli e lo riconosci solo dopo un po’ che si verifica. Forse non era continuo, ma di certo a un certo punto ha intensificato il canto. Appena l’ho riconosciuto, in un attimo dalla mia assenza mi ha distratto e riportato qui alla scrivania. Un usignolo. L’usignolo quando canta, lo fa con tutto il corpo. Un suono fisico, nel senso che lo impegna del tutto e lo scuote. Bello.
Mario Luigi sapeva rifare parecchi “fischi”, richiami. Io invece nessuno, ma siccome andando per boschi lui li faceva e i volatili gli rispondevano – la cosa quanto ci soddisfaceva- un po’ li so riconoscere.
I ricordi di quelle passeggiate sono vivissimi, sebbene tanto, tanto tempo è passato. Per un attimo sono stato nei boschi con mio padre, che non c’è più. Poi mi sono alzato dalla scrivania e, con fare silenzioso e prudente, sono andato verso la finestra per cercare con lo sguardo l’usignolo e vederlo mentre cantava. Doveva esser là fuori già da un po’. Alla fine, quando ti accorgi di qualcosa che hai la sensazione sia “presente” non solo da ora, è come se tentassi di riavvolgere il nastro delle sensazioni immaginando l’inizio, provando a richiamare la durata di quanto hai colto soltanto adesso, che forse sta per concludersi.
Ho spostato le tendine con delicatezza, ma forse non sufficiente perché l’usignolo non c’era più. Sul nudo noce sotto il giardino un paio di passeri, uno stornello, due merli e qualche cornacchia silenziosa, ma irrequieta. Solo i merli han continuato a fischiare, senza avvedersi né allarmarsi della mia curiosità tardiva. Resto con la tendina in mano a guardare fuori.
Manca poco all’imbrunire e anche alla fine della flebo. Da dietro i vetri alzo lo sguardo, lo sposto verso il monte e poi più su. Il cielo è basso e al giorno non manca poi molto per volgere a conclusione. Tra poco farà buio. Sono i momenti in cui della sabbia della giornata che al mattino tenevi in mano, ora ti accorgi non esserne restata che qualche granello – momenti di rammarico o di soddisfazione, comunque di bilancio che nella fase attuale non è proprio sereno -come il cielo, che è velato.
Tutt’oggi il sole è stato incerto. Mi sarebbe piaciuto mettermi a studiare al sole, mi ero fatto l’idea che mi avrebbe giovato e per questo ero andato al giro della Rocca, dove un paio di panchine mi avrebbero permesso di caricarmi e scaldarmi, nonostante la temperatura dell’aria rigida. C’è un tratto di quella passeggiata che s’affaccia su uno scosceso pendio. Lì cui cresce un magnifico albero di giuda. Quando fiorisce è il colore della primavera. Il fucsia intenso dei fiori piccoli e polposi, il verde tenero delle foglie più piccole. Oggi ho controllato. I rami sono pregni di gemme, ma ancora primavera non è. Il noce che guardo da dietro i vetri infatti è ancora svestito, come anche il fico che gli sta accanto.
“Finché il fico non si infoglia, non c’è sciocco che si spoglia”, dice l’anziana genitrice, senza esser fanatica dei proverbi. Qui a casa fa freddino a star fermi alla scrivania, ancor più vicino alla finestra indugiando in piedi dietro ai vetri.
Quando la malinconia coopera, ci vuole poco ad allontanarsi dal reale, a giocare con desideri che affiorano immotivati e brillanti perché assumono inusitate ed eleganti forme di reale inutilità che li rende simili al lusso.
“Sai cosa mi piacerebbe avere? – mi ha detto poco fa mamma scuotendosi dal torpore della poltrona, mentre le controllavo se l’ago stesse in vena e la fisiologica gocciasse come deve- mi piacerebbe avere un campo di lavanda”. Il colore e il profumo dello spigo sono i preferiti, per me. La primavera, la freschezza, l’inizio del ciclo che riprende. Quel campo desiderato lo immagino nel grigio del giorno che volge al termine, giorno in cui se si riesce a mantenere la posizione è legittimo esser quasi contenti. Lo immagino e lo desidero -la ripresa, la primavera, il ritorno- sempre in piedi, da dietro i vetri guardando fuori.
E’ un attimo e prima uno e poi l’altro e dopo altri tre in volo planano davanti al balcone. Volano poco più bassi di dove sto io. Il candore sulla schiena è visibilissimo e inconfondibile. Balestrucci. Sono loro, sono tornati.
Sono tornate le rondini. Fa ancora freddo, il verde non è ancora quello esultante, ma ci sono e volano nel cielo. Ancora non li ho sentiti garrire, ma di nuovo i balestrucci ci sono e oggi li ho visti.
Così è scemato il freddo e s’è attenuata la malinconia.
“Sai, son tornate le rondini”.
Quel sorriso che mi fa annuendo sembra dire che sì, so quello che hai pensato, quello che hai visto, che sei stato nel bosco sacro con papà e sei tornato qui attraversando quel campo di lavanda, e io ora con te sto sentendo lo stesso profumo.
“Manca molto?”, chiede riferendosi alla flebo. No, non molto.
“Mi sistemi il cuscino dietro la testa?”. Certo. Così va bene.
“Mi dai lo scaldino? Fa freddo, vero?”. Ora sì, ma poi il tepore s’allarga e ci prende le mani, anche quella con infisso l’ago cannula che domani immagino vada sostituito. Ma domani, si sa, è un altro giorno.
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