Il tempo delle gite in collina

Ricordi tragicomici delle scampagnate primaverili con la famiglia

di Doris Zaccaria – giornalista e formatrice

Scruto dalla finestra e vedo un meriggio luminoso; dopo una mattinata sul grigio andante, è venuta fuori una giornata bella e tiepida. Sono i primi soli, quelli dai quali ci hanno sempre messo in guardia perché fanno venire il mal di testa.

In un altro mondo, in un’altra era, questo era il periodo delle gite in collina. Ma per spiegarvi di cosa si tratti, mi tocca fare un passo indietro.

Sono cresciuta a cinquecento passi dal mare. Le mie estati da bambina e ragazzina erano lunghissime e felici, vissute nel pieno del boom economico e turistico della riviera romagnola.

Quel mare-laguna, che non vuole mai diventare profondo e spesso indispone col suo color di fanghiglia, risiede al cuore dei miei affetti. Le spiagge infinite, sulle quali ho passeggiato per ore in tutte le stagioni, mi appaiono come un’estensione del cortile di casa.

Per i casi della vita, da quel mare sono stata spesso lontana, in particolare nei 10 anni che ho passato a Milano. La vita di città, per me, è sempre stata sopportabile nella misura in cui potevo tornare spesso a casa. Per vedere l’orizzonte infinito, scrutare il profilo delle piattaforme estrattive sul mare placido, o farmi scartavetrare il viso da una bora pungente.

Col principiare della buona stagione, le mie “scappate” verso la Romagna si facevano più frequenti e ricche di aspettative. Mi vedevo a tu per tu con l’Adriatico e mi sentivo già felice.

Inutile dire che quando finalmente arrivavo a casa dei miei, dopo un viaggio in treno o un più avventuroso tragitto autostradale, scoprivo che per il fine settimana era stata programmata una gita in collina.

Non so come mai per così tanti anni si sia ripetuto questo equivoco di fondo.

I miei, vivendo al mare, pensavano che portarmi in collina fosse qualcosa di speciale. C’è da dire che gli Appennini romagnoli sono piacevolissimi, e che la cucina del posto non può lasciare delusi.

Ma caspita, ero appena arrivata (spesso sopraggiungevo il venerdì a notte inoltrata) e neppure avevo il tempo di salutare le mie care spiagge, perché bisognava avviarsi alla volta di qualche osteria o locanda sperduta.

Il disagio era aggravato dal fatto che per raggiungere certe località bisognasse pure alzarsi presto. Nei miei anni milanesi, la deprivazione di sonno era una costante: figuratevi la voglia di alzarmi di buon mattino e infilarmi in macchina per un’ora o più!

Spesso il tragitto subiva una deviazione perché passavamo a prendere mia nonna, originaria della collina e poi trasferitasi in pianura da maritata. Chissà, riflettendoci, che questo insano amore della mia famiglia per i pendii non dipendesse proprio da questo!

In ogni caso, alla fine si arrivava. Dovevo allora riconoscere che, dopotutto, la primavera in quei posti è magica: filari interi di frutteti fioriti, dolci avvallamenti attraversati da sentieri e ruscelli, cieli tersi costellati da soffici nuvole di cotone.

Se eravamo arrivati presto rispetto all’ora del pranzo, c’erano due alternative. In caso ci trovassimo in aperta campagna, si partiva con la caccia alle erbette di stagione. Valeriana, tarassaco, rucola e borragine, più decine di altre piantine edibili di cui non ricordo il nome, finivano nelle nostre ceste di vimini.

Altre volte, la meta era un borgo abitato: passeggiavamo per le stradine vivaci e animate, magari acquistando un po’ di focaccia e pane montanaro, o qualche specialità del posto.

A mezzogiorno, o poco dopo, ci si avviava verso il ristorante, e dopo il pranzo si gironzolava ancora un po’ nei dintorni o si raggiungeva qualche posticino particolare: un laghetto, un castello, una villa antica da sbirciare attraverso un misterioso cancello, una sorgente d’acqua montana…

L’amenità della natura che festeggiava la primavera riempiva di felicità e alla fine si tornava a casa solo nel pomeriggio inoltrato.

Naturalmente soffro anche di mal d’auto, ça va sans dire; così sulla via del ritorno per evitare di stare male schiacciavo un pisolino, nonostante i miei genitori continuassero a rivolgermi domande. Ad un certo punto si accorgevano che iniziavo a rispondere a mugugni, si arrendevano all’evidenza e mi lasciavano crollare. Quando mi svegliavo eravamo davanti al garage del condominio.

Il cielo non aveva più la tinta netta del giorno pieno, ma la sera era ancora lontana.
Perciò, lavatami la faccia e i denti per mandare via il sonno appiccicoso del pomeriggio, mi vestivo comoda e partivo verso un appuntamento che si poteva rimandare ma non cancellare.

Caro mare, eccomi qua finalmente. La collina a primavera è rigoglio ed esplosione, il mare è pulizia e semplicità. La linea diritta dell’orizzonte, la striscia verde della pineta a fianco di quella ocra della spiaggia.

Riempivo i polmoni di quell’aria salmastra e iniziavo a camminare sulla sabbia più compatta, proprio a riva. Nient’altro da aggiungere: ero felice.

E adesso, eccoci qui. A scrutare il cielo dalla finestra e sperare in qualche periferico manifestarsi di questa splendida stagione: uno stormo di volatili, lo sbocciare dei fiori sul balcone o in giardino (per i più fortunati).

Sono tornata a vivere vicino al mare. Se c’è vento ne sento l’odore, ma non lo vedo da settimane: le spiagge sono chiuse, poco importa che siano ampie e selvagge.

Eppure, devo ammetterlo: se potessi scegliere oggi andrei in collina.

Non me ne ero mai resa conto, ma quelle gite erano diventate un rito irrinunciabile, l’attestazione che iniziava la bella stagione. E mi manca, eccome se mi manca, essere lassù a raccogliere erbette, mangiare una buona piadina e godere insieme ai miei cari del rinnovato splendore di questa primavera.

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