Chi ha detto che a tutti i bambini piacciono le vacanze? E quella del 1963 per me fu la peggiore.
di Giovanni Paolo Magistri – biologo
Non ho mai amato molto il periodo estivo, le cosiddette vacanze; anzi, ad alcune associo ricordi amari, struggenti, a volte insignificanti e ironici.
Nell’estate del 1963, ad esempio, dovetti riparare a settembre tre materie; una di queste era “Musica”. Credo di detenere ancora oggi il record d’essere stato l’unico studente italiano rimandato in “Musica” alle medie inferiori.
Non avevo studiato niente di quello che avrei dovuto; ero disperato all’ultima interrogazione prima della fine dell’anno scolastico.
L’insegnante, un ometto filiforme con la testa pelata a forma di lampadina e un paio di baffetti alla Charlot, mi attendeva impaziente alla cattedra. All’ultimo istante decisi di inventarmi di sana pianta tutto il solfeggio di una breve partitura che mi era stata assegnata con giorni d’anticipo: tanto, mi ero detto, certamente non starà ad ascoltarmi. Al secondo “do” inesistente fui rimandato al posto e la conclusione la si può ben desumere dall’immagine della pagella che ancora oggi conservo gelosamente, al pari della foto che mi vede seduto al pianoforte nella sala Verdi della casa di riposo per musicisti a Milano durante le prove di un concorso.
Sul lato del pianoforte c’è una scritta: “A Vladimir Orowitz e Wanda Orowitz, Toscanini con riconoscenza”. Ironia della sorte.
Per castigo quell’anno non andai in vacanza e nei momenti di pausa dallo studio andavo ad ammirare i campi allagati per la preparazione del terreno alla coltivazione del riso.

L’immobile lastra d’acqua accoglieva l’immagine di quanto il cielo stesse proponendo; per un attimo, avvolto da una immensa e soffocante cappa di umidità, la mente si confondeva e l’istinto mi portava a rigirare il capo per ritrovare l’equilibrio perduto.
A Mede Lomellina non esisteva alcuna possibilità di “prendere ripetizioni” e pertanto era necessario rivolgersi ad insegnanti della vicina Alessandria, raggiungibile in treno ma con orari spesso non confortevoli, tanto da costringermi al consumo del pasto di mezzogiorno fuori casa.
Un compagno di scuola, rimandato come me a settembre e figlio di un casellante delle ferrovie dello Stato, aveva accesso gratuito alla mensa ferrovieri; fu così che anch’io mi spacciai per tale e presi l’abitudine di spendere quanto mi veniva dato per il pasto in cose di poco conto.
Alla mensa i commensali sembravano tutti uguali: il basco in testa, la tuta grigia, il volto sporco di fuliggine e il piatto appoggiato direttamente su lunghissimi tavoli in legno verniciato di grigio e segnati dal tempo.
“Studia…studia, altrimenti farai la mia fine”, era la medesima considerazione che mi sentivo ripetere mentre con la personale forchetta-cucchiaio uno di loro insisteva sul fondo del piatto per raccogliere l’ultimo boccone.
Il macchinista che avrei fatto arrabbiare, per un pericoloso gioco al rientro nel pomeriggio, quasi sicuramente era seduto a uno di quei “tristi” tavoli.

Il gioco consisteva nell’affacciarsi al finestrino del treno nel momento in cui era in arrivo, sulla linea adiacente, quello che percorreva la tratta in senso inverso. Un fischio assordante era la conclusione attesa.
Ricordo anche un banco vuoto alla ripresa dell’anno scolastico. Graziano, un ragazzo della mia età, diligente nello studio, aiutava il padre nel proprio lavoro di installatore di antenne televisive.
Sul tetto di una casa, nel porgere l’asta di metallo che sostiene l’antenna, urtò la linea elettrica …
Quell’estate fu veramente brutta.