Anni ’60: quanti ricordi di quelle estati!

Quando si partiva tutti rigorosamente ai primi d’agosto, mentre le città si spopolavano e i negozi chiudevano in massa

Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Per molti di noi, in questo 2020 così travagliato, le vacanze non saranno viaggi avventurosi ma piccole trasferte, un’occasione per stare un po’ nella natura, magari ospiti di amici e parenti. La parola d’ordine è ”quest’anno andiamo vicino”, con programmi che ci ricordano un po’ quelli della nostra infanzia. 

E le vacanze degli anni ’60, c’è da dirlo, restano mitiche, non fosse altro perché è in quegli anni che la vacanza diventa un vero fenomeno di massa.  Prima di allora, per i pochi che potevano permetterselo, c’era la villeggiatura: si andava “in villa”, trasferendo famiglia e servitù in un luogo più salubre come la Brianza o i laghi per i Lombardi, le rive del Brenta per i veneziani, i colli per piemontesi o toscani o i castelli per i romani. E’ a quelle villeggiature che dobbiamo molte delle splendide ville che ornano il nostro Paese, retaggio di un’epoca in cui i bagni di mare non andavano ancora di moda, e i viaggi erano stravaganze per intellettuali avventurosi, o al massimo esperienze per i figli dell’aristocrazia che facevano il Grand Tour in Europa prima dell’ingresso ufficiale nella vita adulta. I soggiorni in località balneari o montane cominciano ad andare di moda all’inizio del ‘900, ma per anni saranno accessibili solo ai più benestanti. Nel giro di pochi decenni intanto nascono le prime colonie estive, lo scoutismo e, durante il fascismo, i treni popolari che sono per molti italiani la prima occasione per vedere il mare.

Foto d’epoca di una colonia estiva fascista

 Ma ancora nel 1959 ad andare davvero in vacanza è solo il 13% degli italiani. Le vacanze come le intendiamo noi nascono con il boom economico e soprattutto con la diffusione delle prime utilitarie, perfette per caricare intere famiglie e sopportare il peso di una pila di valigie, ammonticchiate sul tetto e assicurate con gli appositi elastici. Per prepararsi poi a lunghe code sotto il sole, un’accettabile premessa del desiderato soggiorno balneare: le “partenze intelligenti” non erano ancora state inventate, e tutti partivano rigorosamente ai primi d’agosto, mese in cui le città si spopolavano e i negozi chiudevano in massa.

La meta indubbiamente più gettonata era il mare, da vivere in una pensione o più spesso in una camera, o per i più fortunati un appartamento, affittati per l’occasione. E mare voleva dire spiaggia al mattino, in attesa di un bagno sempre troppo corto e severamente disciplinato dalle mamme italiane, per cui “mai con la pancia piena”, “metti il cappellino/la maglietta/ i sandali” e soprattutto, anche con trenta gradi all’ombra, “stai attento che prendi freddo”. E poi, per i più fortunati, c’erano ciambelle o cocco acquistati in spiaggia – mia madre, salutistica, imponeva dei tristissimi biscotti estratti dalla borsa per il canonico spuntino del dopo bagno – e all’ora di pranzo tutti a casa per  un pasto completo seguito da riposino .

Al pomeriggio qualcuno tornava in spiaggia – chi arrivava per un solo giorno non aveva abbandonato la postazione, rifocillandosi con le vivande portate da casa – oppure si andava a passeggio. E per i bimbi era l’occasione per strappare ai genitori il permesso di mangiare un gelato, particolarmente ambito visto che all’epoca si consumava solo d’estate, mentre i più grandicelli ascoltavano musica al juke box.

Passatempi proibiti per me bambina, visto che i programmi di mia madre escludevano qualunque golosità e prevedevano una passeggiata in pineta (la pineta di Castel Fusano a Ostia, allora ancora molto bella): un programma non particolarmente allettante, che io trasformavo in una meravigliosa avventura grazie alla presenza di numerosi formicai abitati da formiche di tutte le specie. Probabilmente mia madre vedeva di buon occhio questi miei interessi scientifici, perché ero autorizzata a portare con me un cartoccino di zucchero e un pezzetto di pane per nutrire le mie compagne di giochi, con cui passavo ore piacevoli mentre mia madre leggeva. Solo più grandicella, affidata a mia zia che era molto giovane e scarsamente incline alla disciplina, ho potuto durante altre vacanze assaporare il piacere di gustare una bibita fresca al tavolino di un bar o di scegliere i dischi preferiti da far suonare con i pochi spiccioli disponibili.

La sera poi, dopo la cena a casa o in pensione, si usciva ancora per una passeggiata al fresco, per qualche sagra o a volte per un cinema all’aperto. Non ricordo che esistesse l’Autan, mentre ricordo bene l’odore dell’ammoniaca con cui, ogni mattina, venivano medicate le punture della notte …

Il tutto si ripeteva senza troppe variazioni per due o tre settimane: perché la durata media delle vacanze era superiore all’attuale – 20 giorni l’anno nel 1965 – e perché era diffusa l’abitudine di “parcheggiare” al mare mamme e bimbi, mentre i padri si riunivano alla famiglia il venerdì sera. Dopo una settimana in città che sollevava il sospetto di avventure peccaminose – pensiamo al papà tentato da Marilyn di “Quando la moglie è in vacanza”- titolo italiano che riflette un timore del tradimento legato alla vacanza assai più nostrano che statunitense – mentre nella maggioranza dei casi le trasgressioni si traducevano in cenette solitarie a base di birra e Simmenthal.

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