E se fosse la vita l’unica vera forma d’arte?
Di Giovanni Paolo Magistri – biologo

Altamira (Spagna)
È generalmente riconosciuto che nel suo significato più ampio l’Arte può essere definita come “ogni attività creativa dell’uomo che conduce a forme di espressione estetica, poggiando su accorgimenti tecnici, abilità innate o acquisite e norme comportamentali derivanti dallo studio e dall’esperienza” (E. Treccani).
Personalmente, sono invece del parere che dell’arte non siamo in grado di attribuire un significato compiuto; vaghiamo ininterrottamente da centinaia di anni nel tentativo di riconoscerla, le dedichiamo pagine su pagine di pareri contrastanti, percorriamo chilometri per ammirarla o criticarla, a volte riteniamo noi stessi artefici inconsapevoli, ne abbiamo ritualizzato il suo “decesso”, eppure nonostante tutto continuiamo ad averne una grande necessità.
Qual è il motivo di questo controsenso, se di controsenso si tratta?
Che il “contenitore arte” sia troppo grande per avere una sua formulazione razionale potrebbe essere una prima spiegazione; in esso racchiudiamo principalmente la percezione del nostro vissuto, l’interdipendenza con l’operato dei nostri simili o, come spesso accade, il naufragare nel nostro io.
Jules Verne nel 1870 scriveva “Ventimila leghe sotto i mari” allargando il racconto a fantascientifici ambienti acquatici contrariamente al connazionale Victor Hugo che nel medesimo periodo (1862) proponeva il romanzo storico “I Miserabili”, o a Fëdor Dostoevskij che nel 1866 con “Delitto e castigo” dissertava sul tema della liberazione da uno “status quo” non desiderato attraverso la sofferenza.
I pittori naturalisti dell’800 proponevano una visione oggettiva della realtà, scevra da personalismi e più attenta ai dati di fatto, mentre di lì a poco Pablo Picasso iniziava un percorso artistico ben differente e- dopo aver visitato le pitture parietali del paleolitico delle grotte di Altamira (Spagna)-ebbe a dire che tutto ciò che ne è seguito era solo “decadenza”.
Jackson Pollock, pittore minimalista dello scorso secolo, amava esprimersi attraverso pennellate e colate di colore gettate istintivamente sulla tela, mentre Kazimir Malevich esponeva una tela semplicemente bianca.
Recentemente Christo con la sua installazione, usufruibile dal pubblico, di pontili galleggianti sul lago d’Iseo ha riscosso un successo indiscusso.
E quante volte, concedetemi la provocazione, abbiamo sentito critiche in positivo e altrettante negative sul libro “Pinocchio”?
Ciononostante i riconoscimenti artistici attribuiti a tutti i casi citati sono di indubbio valore e interesse.
Che cosa distingue allora un’opera d’arte da una che non la si ritenga tale?
La domanda pone un dilemma di non facile soluzione fino a condurre inevitabilmente alla conclusione che non esista propriamente una “ratio decidendi et distinguo”.
Che si sia relegati, nella maggior parte dei casi e del tempo, a una vita ripetitiva e forsanche monotona è pressoché indiscutibile, ma che tale modo di comportamento sociale sia la risultante utile del nostro successo evolutivo è altrettanto una verità inconfutabile ed espressione di creatività artistica tra le più strabilianti.
Ma anche la necessità di uscire dai binari dei comportamenti socialmente consolidati trova significato come tentativo dello sperimentare nuove soluzioni evolutivamente vincenti.
Forse è la vita la più straordinaria ed unica vera opera d’arte e ancor più lo è l’unicità di ciascun essere vivente presente, passato e futuro; tutto quanto il mondo del vivente è artefice d’arte.