Arte contemporanea

Quel quadro? Ma potevo farlo anch’io…

Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Photo by Jonathan Borba on Unplash

Magari non ci piace ammetterlo, ma siamo in molti ad aver pensato, osservando un’opera di arte contemporanea, “lo potevo fare anch’io”. Una frase così diffusa che il critico Francesco Bonanni ne ha fatto il titolo di un breve saggio (Lo potevo fare anch’io. Perché l’arte contemporanea è davvero arte, Mondadori 2017). Di fronte a certe installazioni ci siamo sentiti come Alberto Sordi e Anna Longhi, impagabile coppia di sempliciotti alle prese con la biennale di Venezia in un episodio del film Dove vai in vacanza?

So bene di che cosa parlo, essendomi trovata letteralmente a convivere, per una decina d’anni, con l’arte contemporanea. Grazie alla decisione di mio padre di aprire a Firenze una galleria d’arte, o meglio un Centro Culturale destinato a dare spazio a giovani artisti che non volevano assoggettarsi alle regole del mercato. Una formula che, abbinata al carattere originale di mio padre, sembrava fatta apposta per attirare creatività e bizzarrie, oltre a suscitare qualche perplessità nell’adolescente convenzionale e votata agli studi classici che ero allora. Con l’arte, d’altronde, avevo sempre avuto qualche problema, generato da una combinazione di idee chiare, gusti precisi e scarsa diplomazia. Nei primi anni delle scuole medie, lusingata da un insegnante di disegno incuriosito dalla mia passione per il colore, avevo perfino accarezzato l’idea di iscrivermi al liceo artistico. Un’ambizione frustrata dalla mia incapacità di disegnare una linea dritta, e da una nuova docente per cui l’unica forma espressiva legittima era la copia dal vivo. E pur essendo cresciuta nella culla del Rinascimento ho sempre trovato più intrigante – oltre all’arte classica per cui ho da sempre una passione – il Medio Evo, le chiese gotiche o i mosaici bizantini. Senza, ovviamente, trattenermi dall’esprimere le mie opinioni, anche quando erano decisamente controcorrente, anzi soprattutto allora.

Ho scoperto poi di non essere un caso isolato: la difficoltà a digerire le novità, anche in campo artistico, fa parte della natura umana, e molte opere che oggi piacciono a tutti al loro apparire hanno suscitato reazioni negative: è stato così per i quadri degli Impressionisti, mentre qualche secolo prima Caravaggio aveva dato scandalo col realismo delle sue immagini sacre.

E non parliamo solo di pittura. La prima del balletto La sagra della primavera del compositore russo Stravinskij fu interrotta dagli spettatori inferociti, e la stessa Tour Eiffel, che oggi è il simbolo di Parigi ha provocato all’epoca della sua costruzione il tipo di critiche oggi riservate ai grattacieli più avveniristici. Il che dovrebbe quanto meno indurci a maggior prudenza quando osserviamo un’opera d’arte: non significa che dobbiamo farcela piacere per forza, ma potrebbe aver senso sospendere il giudizio, prendersela comoda, cercare di fare amicizia con modalità espressive che a prima vista ci lasciano perplessi.

Per quanto mi riguarda, io in quel mondo mi sono trovata da un giorno all’altro, e fu subito ovvio che il rapporto con la galleria di famiglia non sarebbe stato facile, anche perché avevo la sensazione che quei giovani artisti poco più che ventenni fossero più in sintonia di me con mio padre. Eppure, la convivenza più o meno forzata con quadri, sculture o installazioni mi ha portato a guardarle, apprezzarne alcune, sviluppare un gusto personale inevitabilmente controcorrente. Per cui sono rimasta allergica a Picasso, ma oggi riesco ( e probabilmente devo ringraziare mio padre e i suoi amici artisti) ad apprezzare Fontana o le opere di Burri ,a trovare affascinanti le sculture mobili di Calder e in generale a esplorare con piacere mostre di arte contemporanea, in particolare quelle in cui le opere non sono appese al muro ma sono oggetti da attraversare o toccare ( la mia passione per Marina Abramovic meriterebbe una riflessione a parte). Tanto che qualche anno fa ho fatto pace con le mie esperienze adolescenziali, organizzando con l’aiuto dei ragazzi di allora – ormai Over come me – una pagina Facebook ( http://www.facebook.com/CentroAperA) e una mostra dedicate a quella esperienza.

E ormai so bene che non lo posso fare anche io: come scrisse Bruno Munari, “quando qualcuno dice: questo lo so fare anche io, vuol dire che lo sa rifare, altrimenti lo avrebbe già fatto prima”.  Anche se ammetto di avere, un giorno lontano, sfidato l’amica artista con cui stavo visitando il Museum of Modern Art di New York a dirmi, senza leggere l’eventuale cartellino, se gli oggetti posati nell’angolo di una sala fossero un’installazione o qualcosa lasciato lì dalla donna delle pulizie. E, ancora oggi, mi capita d chiedermi se si possa parlare di arte quando per capirlo bisogna leggere un cartellino…

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