Il cavallo e l’uomo

Una passione che può spiegare solo chi la prova. Proprio come l’autrice dell’articolo

Di Johann Rossi Mason – giornalista medico scientifico      

La passione per il cavallo coinvolge l’8% della popolazione



Un po’ di storia …  *

La relazione tra cavallo e uomo è antica probabilmente quanto l’umanità stessa, anche se all’inizio il nobile quadrupede fu un pasto ghiotto per le popolazioni nomadi delle steppe di Asia ed Europa. Solo con l’avvento della pastorizia e l’inizio della domesticazione animale gli “stolti bipedi” capirono che solo le gambe snelle del cavallo potevano colmare la sete di ignoto  e di conquista. 

Prima di addomesticare gli animali era necessario catturarli, costruire spazi  adatti per rinchiuderli. Nel Paleolitico l’uomo non sapeva ancora fabbricare lacci o funi( il nodo appare oltre il Neolitico). E sin qui le difficoltà pratiche di contenimento  di un animale selvaggio e della sua indole più pura. Esiste poi una differenza non banale tra addomesticamento come coercizione e la “domesticazione”, che è un processo psichico che include in qualche modo la volontà dell’animale a rinunciare a qualcosa della propria natura, per accedere alla relazione e al contatto con l’umano.

Il mutamento nel cervello dell’animale deve essere così consolidato e continuo da essere trasmesso anche alla sua discendenza. Dapprima impiegato come animale da tiro, è presto evidente che le sue più ampie potenzialità si possono sviluppare se montato.

Imparate le tecniche di allevamento della doma l’uomo si elevò, letteralmente. A cavallo tutto diventava possibile in quella che si è rivelata un’alleanza durata millenni. Miracolo divenuto possibile grazie all’indole coraggiosa del cavallo e alla sua adattabilità ad ogni clima e terreno.

Praticamente ogni epoca e ogni civiltà ha avuto una razza che l’ha contraddistinta: dall’asciutto degli Assiri,  il perfetto e nevrile arabo, il barocco del 600, l’americano resistente, lo spagnolo votato alla guerra.

Tanto bello e nobile da diventare anche oggetto di culto religioso per gli sciiti.

L’animale deve capire quello che vogliamo da lui per poter rispondere adeguatamente. Ci chiede di guidarlo e  trasferirgli una guida sicura. L’equitazione non è un’attività per incerti o indecisi. Viaggi, caccia, commercio, posta, guerra…Il cavallo era sempre presente, tanto che in Grecia comparvero i primi manuali per Cavalieri come il Peri Ippikes di Senofonte. 

E’ in ambito militare che si scrive gran parte della relazione tra cavallo e uomo, ma a metà del XVIII secolo le scuole di equitazione militari addestravano i cavalli ad eseguire piroette ed acrobazie che possiamo ancora vedere nella scuola spagnola di Vienna, che però si rivelano inadatte alle esigenze dei conflitti. Fu così che Federico il Grande crea una cavalleria capace di affrontare i terreni più impervi e caricare, travolgendo letteralmente, gli avversari.

Si tratta di un nuovo modo di usare il cavallo in battaglia che rivela i limiti dell’assetto del cavaliere in sella e che Monsieur d’Auvergne, che guida la scuola militare di Parigi, si impegna a cambiare modificando la posizione del cavaliere in sella, rendendola più naturale e maneggevole per gli usi militari

La nascita di quella che chiamiamo “equitazione” è un’arte complessa che prevede l’adattamento reciproco a forze ed equilibri fisici  prima, e psichici poi. E sottolineo equilibrio: una qualità mentale fondante per chi vuole andare a cavallo. Dobbiamo infatti pensare che un cavallo pesa mediamente 450 kg, rispetto ai 75 di un maschio adulto medio. Un concentrato di forza e potenza che l’uomo può gestire solo con l’intelligenza.  Eppure vedo ancora cavalli montati come motociclette, senza che il cavaliere si sforzi di capire che  tipo di ‘individuo’ ha sotto di sé.

Se la Rivoluzione Francese fa tabula rasa delle scuole di equitazione sacrificando anche il maneggio di Versailles, Napoleone ne intuisce il valore e dal 1806 ne istituisce ben undici, tra cui quelli di Rennes e Saint Germain. 

E’ in questo periodo che emerge la figura del conte d’Aure che viene nominato scudiero capo nella prestigiosa scuola di Saumur (che, per inciso, darà il nome ad una borsa di Louis Vuitton a forma di sella). D’Aure ha l’intuizione di una equitazione che segua la morfologia del cavallo specialmente nel salto e grazie ad un intenso lavoro in campagna destinato a diventare perfezione sotto l’impulso di un italiano. 

C’è da dire che in Italia nel 17° e nel 18° secolo non si erano sviluppate scuole di equitazione. Fu  Carlo Felice nel 1824 a fondare a Pinerolo una scuola di equitazione militare che fu affidata al Tenente del Genio Cesare Paderni, che fece bene ma fu poi esonerato per motivi di ostilità da parte degli ufficiali di grado superiore al suo.

E’ il 1886 quando alla scuola militare di Modena si presenta un aspirante di cavalleria. Il giovane livornese Federico Caprilli viene dichiarato non idoneo dalla commissione medica a causa di un rapporto sfavorevole tra la lunghezza di tronco e gambe. Ma quando un destino è scritto non c’è nulla da fare: si materializza un posto vacante per cui viene ammesso. Una “coincidenza” destinata a cambiare la storia dell’equitazione. Si distingue immediatamente per coraggio e passione e le sue gesta sportive diventano note in tutto il paese.

E’ la fiducia del colonnello Berta a permettergli di gettare le basi di un nuovo modo di montare a cavallo, tecnica che mise a punto osservando per ore i movimenti da terra alle varie andature. Se sino a quel momento si saltava portando il peso sulle sulle reni per liberare gli anteriori, Caprilli capovolse il paradigma e portò il peso in avanti assecondando il salto e risparmiando sofferenze all’animale. Il metodo che lo rese famoso nel mondo mirava ad adattare il cavaliere al cavallo e non viceversa (anche se i francesi mostrarono una diffidenza per il metodo, salvo poi doversi arrendere alla sua superiorità).

E’ sulle basi gettate dal geniale italiano (morto tra l’altro in sella per un aneurisma a 39 anni) che si evolve l’equitazione sportiva che vede l’Italia brillare grazie al talento di nomi che sono entrati nel mito: Piero e Raimondo D’Inzeo, medaglie d’oro nel salto ad ostacoli alle Olimpiadi del 1960 prima, e Graziano Mancinelli poi. 

Con l’avvento della ferrovia, del motore a scoppio e delle armi pesanti, il cavallo perde molti dei suoi ruoli tradizionali, ma il legame con l’uomo (e la donna) è ormai indissolubile e rimane saldo nella pratica medica ed agonistica. 

La passione per il cavallo coinvolge 3,2 milioni di praticanti (pari all’8% della popolazione). 

Quello di chi scrive più che un amore è un ‘imprinting’ , pari a quello che lega i piccoli anatroccoli al primo oggetto animato dopo la schiusa. (Lorenz insegna)

*Si ringrazia Romina del Re della Galleria d’Arte Perera per aver fornito il volume “Il cavallo e l’uomo” di Luigi Gianoli  (Longanesi, 1967)

…  e ora parliamo di me

L’aria del paradiso è quella che soffia tra le orecchie di un cavallo” (antico proverbio arabo)

L’equitazione, se si gode di buona salute e soprattutto non si soffre di mal di schiena, si può praticare dall’infanzia fino all’età matura

La mia storia personale con il cavallo inizia a 4 anni. Ero con mia madre a Villa Borghese a Roma e stavamo riposando su un plaid dopo aver fatto un pic nic e giocato a palla, ricorrerci e fare le capriole sull’erba, attività che non disdegno nemmeno ora che ho spento 50 candeline.. Probabilmente lei era sfinita mentre io mi nutrivo di tutto quel verde che da sempre è per me fonte di piacere e di energia. Accadde però qualcosa che avrebbe cambiato la mia vita per sempre: passarono a pochi metri da noi due carabinieri a cavallo. Dalla posizione in basso in cui ero e data la statura di una 4enne i due animali devono essermi sembrati ancora più alti e maestosi. I militari indossavano la divisa da equitazione e un mantello nero, aperto su una spalla, che accarezzava il dorso del cavallo. Inutile dire che nel cuore di quella bimba si accese una attrazione destinata a diventare un amore indelebile. 

A casa  non smettevo più di raccontare a mia nonna quello che avevo visto con gli occhi ancora pieni di stupore per la grandezza e la bellezza perfetta di quella immagine. Il dado era tratto. Un solo attimo e il mio destino era segnato per sempre nel solco degli zoccoli e dei manti di ogni foggia e colore. Dovetti aspettare a lungo per poter coronare il sogno di montare su un cavallo vero, sette anno per la precisione. Ciò che potevo fare, e che era oggetto di contrattazioni degne di un capo di stato, era di chiedere di guidare il calesse che noleggiavano nella stessa Villa Borghese. Trainati da volenterosi pony che già a 8 anni lanciavo a tutta velocità nei viali del parco che ospitava la celeberrima Piazza di Siena. Il tutto con mia madre che si stupiva di come un soldo di cacio dai lunghi capelli biondo cenere avesse tanta determinazione. 

Quello che non ricordava è che la passione per i cavalli attraversava come una sottile linea rossa la nostra famiglia e che, andando indietro nel tempo, le mie cugine più grandi parlavano con un senso di deferenza e ammirazione della zia Anna, elegante ed austera amazzone della quale si ricorda la passione per i cavalli come tratto distintivo. 

Devo ringraziare mia madre che pur non avendo in quel periodo grandi risorse economiche capì che i cavalli erano la mia unica ragione di vita e fece immani sacrifici ma mi iscrisse al prestigioso circolo ippico della cittadina dove eravamo andate ad  abitare. Vivevo e respiravo solo per montare, trottare, saltare. Tutto quello che facevo era solo un intermezzo tra un’ora di equitazione e l’altra dove mi perdevo a strigliare il cavallo di turno, passavo in rassegna ogni ospite delle scuderie, munita di mele e carote, giocando con ciascuno di cui conoscevo nome, pregi, vizi e caratteristiche. Una passione che non mi ha mai abbandonato e che non si è tradotta in una carriera sportiva ma in un luogo mentale di pace. 

Quando sono agitata o turbata l’unica cosa che riesce davvero a calmarmi è chiudere gli occhi e pensare alla vestizione del cavallo: la testiera infilata con garbo e rispetto, le redini appoggiate sul dorso, il sottosella aggiustato con precisione, la sella posta con delicatezza mentre sai che dovrai stringere di più il sottopancia in campo. E mentre vesti il cavallo per il lavoro senti che lui è felice di uscire e di spezzare la noia della scuderia e di ritrovare gli odori della terra e del prato, del trifoglio appena spuntato, profumatissimo e goloso. Dopo anni di maneggio oggi la mia dimensione è quella più intima delle passeggiate in libertà: mare e campagna, montagna, in relax a guardare insieme il panorama da una prospettiva diversa, con carezze e parole sussurrate perché si ai cavalli si sussurra, mai si grida. Per me montare a cavallo è salire di un livello nel rapporto con la natura, entrare in uno stato di concentrazione assoluta, quello che i neuroscienziati chiamano ‘flusso’, è diventare una cosa sola con l’animale e averne il controllo e la collaborazione senza coercizioni.

Se pensate che il mio giorno più bello sia quello di una gara o di un concorso siete sulla strada sbagliata: niente carriera agonistica per me, ma un episodio è marchiato nel mio cuore. Nel 1998 andammo a Cortina con quello che stava per diventare mio marito. C’era tantissima neve e trovammo un circolo ippico aperto. Ho sempre pantaloni e stivali con me quando viaggio. Un istruttore mi portò a cavallo nei boschi, nel silenzio in cui si udiva solo il crepitio di qualche ramo spezzato, e il suono ovattato nei passi dei nostri cavalli che affondavano nella neve. Un’ esperienza unica perché solo pochi giorni dopo scoprii di essere in attesa di mia figlia che, nella mia immaginazione, è stata influenzata magicamente da questa esperienza.

La mia con i cavalli è la storia di un amore inossidabile e di una attrazione con la consapevolezza di poter alimentare la mia sete di vento e criniera per molti anni ancora. Se la schiena lo permette è uno sport che è possibile praticare sino a tarda età così come testimoniano anche la Regina Elisabetta II e Camilla Parker, quest’ultima ancora cavallerizza attiva. Il mio istruttore storico, il Capitano Tacchella, ha montato sino ad oltre 80 anni (e vissuto sino a 100), e mi auguro di poter fare lo stesso anche se avrò bisogno di una scaletta per salire e scendere in sicurezza, nonostante abbia sempre trovato il metodo di “dare la gamba” molto più elegante.

Johann Rossi Mason, giornalista medico scientifico e autrice dell’articolo, ama i cavalli da quando era una bimba di soli 4 anni. Una passione che l’aiuta a raggiungere la concentrazione assoluta: il cosiddetto “flusso”, come lo chiamano i neuroscienziati

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