A TU PER TU CON FABIO CONCATO

Davanti al computer fissando gli appunti

Entro poche ore devo chiudere la rivista e non ho ancora trascritto l’intervista fatta a Fabio Concato diversi giorni fa. E dire che l’idea di dedicare questo numero alla musica era nata dall’aver ritrovato l’amico d’infanzia dopo anni e anni, averci chiacchierato per telefono abbondantemente, essere andata allo strepitoso concerto al Teatro Lirico Giorgio Gaber, aver scattato con lui la foto che avrei messo come copertina di Generazione over 60, aver concordato giorno e ora per l’intervista.

Adesso le oltre 60 pagine del magazine mensile sono pronte – ci sono solo le correzioni da mandare al grafico- ma manca proprio il pezzo forte: l’intervista.

Non è la sindrome da pagina bianca (di cui, almeno questa, non ho mai sofferto): è il desiderio di riportare al meglio le risposte di Fabio più una sorta di inadeguatezza che mi assale all’improvviso.

Mi do una scrollata. Ma dai, per anni- nonostante avessimo solo un paio d’anni di differenza- (evidentemente, avevo già il Dna della prof) lo seguivo tutti i pomeriggi nei compiti, lo interrogavo, rimproveravo… E poi, vogliamo dimenticare che da bimbi, su una barchina, aspettavamo suo papà Gigi e mio zio Felice mentre si infilavano la muta per immergersi e quindi andare alla ricerca di cernie… e poi rammento quanto fossi affezionata alla sua famiglia (papà, mamma, fratello) e quanto tempo passassimo assieme, anche d’estate, a Viserba (Rimini). Spesso in compagnia di amici comuni. E ancora ricordo le risate, le chiacchiere surreali e nello stesso tempo profonde che ci impegnavano dopopranzo o dopocena.

Potrei continuare così per non so quanto, mentre seguito a meravigliarmi di non essermi mai emozionata nell’intervistare Rita Levi Montalcini, Dacia Maraini né Claudio Abbado… E allora che cos’è? Lo so: è il valore che do all’amicizia, e l’amico ritrovato dopo tanto tempo che non si è montato la testa per il successo (non che l’abbia mai temuto), ma che anzi riconosco nei nostri modi di parlare e di ridere, quello sì mi emoziona, vivaddio.

E allora bando alle ciance e mettiamoci all’opera. Trascrivo qui di seguito la nostra intervista, non senza sottolineare che gli avevo anticipato: “Fabio, prometto che sarò professionale e stringata”. Bene, la telefonata è durata 52 minuti e 10 secondi (i cellulari servono anche a questo), ma credo fosse inevitabile per entrambi frammezzare l’appuntamento di lavoro con le nostre chiacchiere, considerazioni, reminiscenze.

Mio caro Fabio Piccaluga (tale rimani per me), è stata una fatica emotiva improba e imprevista, ma ne valeva assolutamente la pena. Grazie per avermi, un’ennesima volta, fartto emozionare e sentirmi viva. Ti voglio bene.

Io con Fabio Concato

 Fabio, cominciamo con “la domanda delle domande”. Se dovessi spiegare a un marziano che cos’è la musica, come la definiresti?

Più che definirla, penso che prenderei la chitarra in mano e gli canterei una canzone. E’ inammissibile pensare a un pianeta senza musica: equivale ad un pianeta senza vita. Del resto, anche la terra produce suoni, così gli animali e, allo stesso modo, sentiamo versi e suoni ad altezze incredibili (vedi l’Everest, con i suoi 8.800 metri), oppure negli abissi dei mari. Tutto questo è musica, anche quella che ci piace poco.

Se poi il marziano in questione non ha “sentito” nulla- non gli è arrivato nulla- concluderei che è davvero un marziano. Al contrario…dedurrei che ha antenati umani.

 Tu componi in toto i tuoi brani, scrivendo sia la musica sia le parole. Parti dalla prima o dalle seconde?

Al contrario di tutti gli altri autori, io procedo in parallelo. Vale a dire: in genere parto da un soggetto che ho in testa. Da qui sgorga la parte musicale, cui si aggiunge una sequenza di soggetti e parole. E quindi altra musica (e parole). Ma sempre tutto in parallelo.

 Uno stereotipo abbastanza diffuso vuole che l’ispirazione salti addosso ai veri musicisti solo con il sopraggiungere delle tenebre.

Per me non è certo così: mi è capitato di comporre alle due e mezzo del pomeriggio, come durante la notte. Che cosa mi faccia scattare seduto al pianoforte o con la chitarra in mano resta una sorta di mistero. Io lo sento come un bisogno e quando questo si fa più forte mi procuro dei momenti miei e “vado via” (in Svizzera, in Liguria o altrove), dove mi è possibile dare sfogo a quest’esigenza.

  Sei vissuto in una casa dove si respirava musica: non solo avevi nonni cantanti lirici, ma soprattutto papà Gigi, grande jazzista (un giorno Franco Cerri, incontrato casualmente in treno, ebbe a ripetermi come considerasse Gigi Piccaluga un vero maestro, ndr) e mamma Giorgina, diplomata al Conservatorio, oltre che poetessa e scrittrice. A tuo parere esiste il gene dell’arte e della musica?

Credo proprio di sì. Del resto, come hai potuto constatare allo spettacolo al Lirico, tanti ragazzi e ragazze al massimo trentenni cantavano a squarciagola i miei brani, anche quelli meno conosciuti, sapendo tutte le parole a memoria. Il che si spiega solo perché i genitori o comunque familiari della nostra generazione hanno fatto loro conoscere questo tipo di musica. Che però puoi recepire e apprezzare solo se hai, e coltivi, il famoso gene della musica.

 Fabio Concato nel 2020 vince “l’Ambrogino d’Oro”, prestigioso riconoscimento meneghino. Avevi già “rischiato” di aggiudicartelo in precedenza, ma ti arriva grazie al brano “L’Umarell”(il pensionato che, per lo più con le mani dietro la schiena, si sofferma presso i cantieri di lavoro). E’ una canzone tutta in dialetto milanese: nei teatri del Sud dove stai portando in tour “Musico ambulante” come arriva?

Non la canto sempre, anche perché devo tener conto del mio stato d’animo che cambia, anche a seconda del pubblico che ho davanti. Tuttavia chi non conosce la canzone (e tantomeno il nostro dialetto) ne è incuriosito. E comunque bisogna tener presente che Milano è una delle città in cui meno di tutte si parla il dialetto, e perciò basta spostarsi di qualche chilometro, senza arrivare al Sud, perché le parole non siano capite. E forse, al di là dei vocaboli, si intuisce comunque la vena ironica che pervade la mia musica. E ciò spesso anche nelle canzoni più malinconiche. 

Grazie, Fabio. Io a questo punto, dopo averti ritrovato, non smetto di aspettarti.

Non smetto di aspettarti

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