Andata / Ritorno
Di Amelia Belloni Sonzogni – scrittrice
Ci sono istanti di felicità tali da resistere, belli e isolati, al passare del tempo e nonostante tutto. Sono nella memoria, impossibili da dimenticare.
Può sorprendere, invece, ritrovare – scappato da un plico – un talloncino di cartone, perfettamente conservato; a monito?

— Torno per cena. Ciao!
La voce squilla incontrollabile mentre saluta i suoi ed esce.
Ufficialmente, Elena va da Paola, quindi dovrebbe nascondere tutta la gioia, quasi una frenesia, che la spinge. Di quanto accaduto pochi giorni prima, non ha raccontato nulla, né a papà – si sarebbe ingelosito – né a sua madre – manca la necessaria confidenza. Solo due amiche, compagne di classe, messe al corrente, avevano commentato affettuose: “era ora, a diciott’anni compiuti, nel 1975!!, almeno prima della maturità, ci voleva”.
Si dirige di buon passo verso la stazione di Levanto. I tigli di corso Roma sono carichi di gemme e piccole foglie già sbocciate; oltre l’intrico a volta dei rami, il cielo è azzurro, intenso eppure chiaro, privo per ora di nuvole. Quando attraversa il ponte sul Ghiararo, Elena vede le macchie gialle dei narcisi fioriti, illuminati su una riva dal sole che inizia a scaldare anche lei. È tutto bellissimo come sempre, eppure insolito.
Acquista il biglietto e raggiunge il binario per La Spezia.
È impaziente. Guarda di continuo l’orologio, cammina per mettersi al sole, ora alto e deciso oltre il crinale. Osserva, sulla banchina di fronte, di fianco all’ufficio del capostazione, i due “annuncio treno” – direzione La Spezia, direzione Genova – che iniziano a suonare quando un convoglio parte dalla stazione limitrofa; al momento, tacciono.
Sarebbe stato come prendere un tram a Milano; qualche scossone, tra accelerate e frenate; poca gente in circolazione alle dieci del mattino del venerdì prima di Pasqua. Mezz’ora per rivederlo. Si sente avvolta dalla medesima e allegra agitazione confusa, le scorre addosso la stessa sensazione indefinibile provata nell’istante in cui l’aveva conosciuto.

Glielo aveva presentato Paola mentre era ospite da lei, una decina di giorni prima: veniva verso di loro con un amico e, al guinzaglio, Barto, terranova di una bellezza maestosa. Elena aveva subito affondato le mani nel pelo lungo, fitto attorno al collo, mentre lui l’aveva annusata facendole il solletico con i baffi. La bellezza del cane l’aveva affascinata tanto da non curarsi del fascino del proprietario, notato solo alzandosi.
Le aveva sorriso, con una fossetta sulla guancia. Gli occhi blu, ingranditi dalle lenti da vista, sfuggenti; il gesto della mano passata di continuo sui folti capelli neri, lunghi quel tanto da cadergli sulla fronte a infastidirlo: aveva avvertito un’aria quasi familiare, ma non lo aveva mai visto, ne era certa; neppure ne aveva sentito parlare da Paola, che nel frattempo aveva preso accordi per vedersi la domenica pomeriggio, ad una festa di compleanno.
— Ci sentiamo — aveva detto lui – Emanuele – salutando mentre Barto distingueva odori.
Uno degli “annuncio treno” inizia a suonare.
—Allontanarsi dal primo binario, treno in transito.
Lo spostamento d’aria, i vagoni merci, lo sferragliare ritmato, il gusto del ferro: suscitano in lei sempre lo stesso smarrimento, passeggero come il treno, come se la portasse via. Si ripara dietro un pilastro, quasi dovesse riparare anche la felicità che prova: dell’attesa, del tragitto, della strada da percorrere; che proverà tra mezz’ora: dell’appuntamento, dell’incontro, delle labbra avide ma tenere.
Il suono degli “annuncio treno” raddoppia.
— Locale per La Spezia è in arrivo sul secondo binario. Ferma in tutte le stazioni.
Elena sceglie un posto vicino al finestrino, in uno scompartimento vuoto. Ha voglia di guardare il panorama e di ricordare, di fantasticare; tutto il resto resti fuori.
Si erano incontrati ancora in via Chiodo e lei, impacciata dalla consapevolezza che Emanuele le piaceva, era rimasta incollata a Paola. Cercava di non darlo a vedere ma non lo perdeva di vista un momento: affabile e sorridente, passava da un gruppetto all’altro, accolto sempre da tutti con espressioni evidenti di piacevole sorpresa. Scambi di battute, sigarette offerte e accese, un clima allegro di incontri da organizzare con questo, con quello. Le era parso di cogliere uno sguardo per lei ad ogni passaggio, come se anche lui la stesse tenendo d’occhio, fino a quando si era avvicinato e, intrufolandosi tra lei e Paola, aveva detto:
— Ho due biglietti in più per il concerto di Elvin Jones, stasera al Civico. Venite?
Aveva creduto sarebbero stati insieme ad ascoltare, invece Emanuele si era allontanato nell’intervallo ed era ricomparso a fine concerto:
— Jazz puro, vi è piaciuto?
No, non proprio, ma aveva detto di sì, lo avrebbe detto comunque.
Il treno rallenta, stride, si ferma a Monterosso. Entra il sole dal finestrino. Elena si crogiola al suo tepore riflesso. Sente dei passi, alcuni ragazzi in cerca di un posto a sedere per tutti la superano, per fortuna. Non ha voglia di chiacchierare.
Sulla porta dello scompartimento appare il capotreno:
— Favorisca il biglietto, per favore.
Oblitera con un colpo deciso il cartoncino e glielo rende. Dal finestrino, Elena vede il capostazione che sventola la paletta verde. Fischia. Il treno riparte.
Alla festa di compleanno, nella cantina di una villa a Fiascherino, Emanuele era gentile, con il sorriso sempre aperto tra le fossette, ma sfuggente. Bello e inquieto come un personaggio di James Dean, al quale le sembrava assomigliasse.
Senza dirle nulla, le si era avvicinato, con un braccio intorno alla vita l’aveva portata a sé mentre Drupi cantava “Piccola e fragile”; l’aveva tenuta stretta, con la sigaretta nell’altra mano, una boccata ogni tanto, occhi negli occhi, zitti tutti e due: non c’era più nessuno intorno per lei, cullata dal dondolio leggero del lento, avvolta da un profumo impastato di sigaretta ma piacevole, fino al secondo ritornello.
Emanuele non aveva aspettato la fine della canzone per lasciarla con Paola e andarsene a chiacchierare con altri amici. Un sorriso, un bacio leggero sui capelli, l’occhiolino appena accennato, un prendi e lascia che l’agitava e la lasciava inerme, a desiderare il prossimo.
La carrozza sui cui si trova Elena resta in galleria.
Non tutto il treno riesce a entrare nella piccola stazione di Vernazza ma, quando riparte, appare il caruggio colorato, corre curvo in discesa verso la piazzetta e il mare e sparisce. A mostrare il mare brillante, a fargliene sentire il profumo e il rumore, arriva Corniglia dove il golfo è largo e lo sguardo scappa impaziente oltre la punta a levante, lungo le strade disegnate dalle correnti sulle onde. Elena abbassa il finestrino: sole in fronte, aria pulita, salsedine che sa di fiori di roccia, tutto la tranquillizza; sente un “annuncio treno” avvertire di un treno in transito e il suo non riparte, questioni di precedenze.
Emanuele sarà ad aspettarla al binario? Era stato impreciso nei dettagli:
— Quando arrivi, ti trovo.
Come trascorreranno quella giornata? Non le importa, non vede l’ora.

Nessuno degli amici sentiti da Paola per telefono era interessato a quel film, pazienza: sarebbero andate da sole, all’ultimo spettacolo del pomeriggio. Avevano fatto scorta di caramelle: Otello al cioccolato, uno per ogni primo piano di Alain Delon, mascherato da Zorro. Alla fine del primo tempo il sacchetto era quasi vuoto.
— Guarda chi c’è! — le aveva detto Paola, indicando alla sua sinistra. Elena si era sporta mentre Emanuele superava posti a sedere vuoti per raggiungerle.
— Vuoi cambiare posto? — le aveva chiesto Paola in un orecchio, a luci spente. No, non aveva voluto ricambiare il gesto esplicito, preferiva lasciargli l’iniziativa.
Gioia e imbarazzo si azzuffavano in lei mentre Zorro disegnava Z in punta di fioretto sulla pancia del sergente Garcia: non aveva ancora dato un bacio a nessuno, non sapeva come, non voleva sbagliare quando; sprofondava, nel timore di essere “imbranata” e nella poltroncina.
Manarola, Riomaggiore, le fermate intermedie sono finite. Deve scendere alla prossima. Sembra così lungo quest’ultimo tratto di gallerie.
Erano rimaste sedute ad ascoltare la colonna sonora, poi Emanuele si era alzato, aveva sospinto Paola verso l’uscita dalla fila: — The end: fine! Il film è finito…
Fuori scrosciava una pioggia battente: — Siete a piedi? Vi accompagno io.
Aveva dato un colpetto di clacson, aperto lo sportello e reclinato il sedile anteriore della 500 blu per farle salire. Elena si era sistemata dietro. La pioggia batteva quasi violenta sulla capote di stoffa. Dopo qualche curva intorno ai colli, arrivati davanti a casa, Paola era scesa di corsa, aveva aperto il portone e chiamato l’ascensore. Elena si era girata per salutare Emanuele, sceso dalla 500 blu, bagnato.
All’improvviso, al riparo del portone, la schiena appoggiata alla pulsantiera dei citofoni, una mano intrecciata alla sua e l’altra nei suoi capelli annaffiati di pioggia, sopra le lenti appannate degli occhiali, aveva dato a Emanuele il primo bacio: così ovvio, quasi inconsapevole, dolce e semplice, tenero, lungo fino alla carezza sul viso, lo sfiorare delle labbra sulle sue ciglia e il sussurro solo per lei: — Ciao, stella; a domani.

Il treno termina la corsa.
Elena scende, cerca Emanuele e non lo vede; poi lo nota, sul primo binario, che la saluta con la mano. È bello, sorride.
Nell’abbraccio, subito ritrova la dolcezza dei baci scambiati pochi giorni prima in giro per la città, tra le bancarelle della fiera di San Giuseppe; la delicatezza con cui le spostava i capelli dal viso; i discorsi sul jazz, sulle orchestre americane, sulle canzoni anteguerra, ma come fai a conoscerle, le chiedeva e lei a spiegare che le cantavano i suoi genitori, la sai questa? Lui che l’ascoltava canticchiare, senti che bella vocina; e le insegnava: “allacciamoci nel tango, dolce bimba fior del fango”, ma lei sbagliava sempre la nota “go” di tan-go e di fan-go.
La prende per mano: — Ho la macchina, vieni.

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Un paio d’ore dopo, la riporta in stazione.
Hanno gironzolato con la 500 blu, si sono fermati in una parte del porto, vicino al mare, un punto che Elena non conosceva e, dovesse tornarci, non saprebbe dire dov’era.
Elena ha snocciolato progetti immediati: era a Levanto per Pasqua, poi gli esami di maturità, sarebbe tornata per l’estate; intanto, poteva venire lui una volta a Milano.
— Non so, ho gli esami da dare in facoltà; sono già in ritardo.
I baci sono cambiati: sono strani, diversi, a tratti freddi.
— Che c’è?
Le parole sono sempre più asciutte e distanti, i sorrisi si sono spenti sul nascere.
Elena non è riuscita a non chiedere:
— Perché?
Le domande non hanno avuto risposta plausibile, fino all’ultimo “perché” di una semplicità cruda:
— Non ho voglia di stare con te.
Elena scende dalla 500 blu e lo saluta come se non ci fosse stato nulla tra loro; lo manda via, preferisce rimanere da sola, al binario finché arriva il treno.
Sale e si siede. Cerca di guardare il panorama, lo stesso del viaggio di andata, ancora più splendente nella luce piena del sole dopo mezzogiorno, ma non lo vede, non vede niente, solo i momenti vissuti, le emozioni appaganti; il gusto di un bacio bagnato di pioggia; la felicità e, ora, il vuoto. Cerca di non piangere, per orgoglio, per amor proprio, per non mostrare gli occhi rossi quando a casa le chiederanno il motivo di un rientro tanto anticipato. Pensa alle amiche a scuola, ansiose di sapere: racconterà – alla svelta – di una delusione amara.
Terrà il biglietto, per ricordare: andata e ritorno.