Le emozioni della letteratura: il punto di vista degli autori
Di Paola Emilia Cicerone – giornalista scientifica

Per me felicità e libri sono sinonimi. Da quando ho imparato a leggere o forse da quando, bambina, vincevo la paura di dormire da sola nella mia cameretta portandomi a letto un pacco di libri destinati a farmi compagnia per la notte, sui quali poi inevitabilmente mi addormentavo. Nel corso degli anni molti libri mi hanno dato conforto, per ragioni diverse e in momenti diversi. Ma se devo citare il mio personale “ libro della felicità” il primo che mi viene in mente è La mia vita di Agatha Christie (Mondadori), autobiografia della famosa scrittrice che è riuscita, grazie all’intelligenza e al sense of humor, a superare esperienze traumatiche come la dislessia o l’abbandono del marito. Il che non toglie che ci siano libri dedicati alla felicità fin dal titolo, come la celeberrima Lettera sulla felicità di Epicuro disponibile in diverse edizioni. In realtà il titolo originale, modificato dagli editori per renderlo più appetibile, era Lettera a Meneceo: nel testo il filosofo riassume i principi fondamentali della sua filosofia: accontentarsi del necessario e non perdersi dietro desideri irrealizzabili. Una giusta via di mezzo che richiama per noi l’insegnamento buddista, cui si contrappone con qualche forzatura Seneca che nel suo De vita beata (pubblicato a Newton Compton come La felicità) sostiene che la felicità risieda invece in una vita virtuosa e condotta secondo ragione.
In tempi più vicini a noi, il dibattito e l’idea stessa di felicità si fanno più complessi e ricchi di sfumature. Le raccolte di aforismi tendono a semplificare, ma anche limitandoci alla letteratura italiana c’è chi come D’Annunzio identifica la felicità con il piacere, mentre il suo contemporaneo Pascoli la trova piuttosto nelle piccole cose che lo circondano, una serenità familiare che è forse anche un modo di sfuggire a emozioni troppo forti (non è un caso che Pascoli sia uno dei miei poeti preferiti).


Ma la felicità data dal rapporto con la Natura è un tema ricorrente in letteratura, pensiamo a un poeta romantico come William Wordsworth, e alla sua celeberrima poesia I Wandered Lonely as a Cloud – più nota come Daffodils – dedicata ai narcisi e all’emozione provata nel vederli danzare nell’erba ( Qui il testo integrale in inglese https://www.poetryfoundation.org/poems/45521/i-wandered-lonely-as-a-cloud ).

Più curioso, semmai che di felicità si siano occupati due autori che siamo abituati ad associare al pessimismo come Schopenhauer e Leopardi. Il poeta ci ricorda come la felicità che ci è concessa sia fatta solo di attimi, o della pausa tra due dolori, e in qualche caso dell’attesa di una felicità che non arriverà mai – come quella descritta nei celebri versi de Il sabato del villaggio – e resti quindi un sentimento precario e irraggiungibile. Mentre il filosofo tedesco (1788/1860) si è sbilanciato con una raccolta di Consigli sulla felicità pubblicati in italiano da Mondadori: per Schopenhauer una vita serena va cercata nella realizzazione della dimensione interiore, evitando di farsi ingabbiare dalle illusioni o di correre dietro ai piaceri.
L’elenco potrebbe continuare a lungo, con l’avvertenza di non fermarsi al titolo, spesso fuorviante. Un esempio? Il bellissimo racconto di Katherine Mansfield intitolato Felicità – nell’originale Bliss, beatitudine – pubblicato in italiano da vari editori, descrive, in effetti, un momento di gioia infinita seguito, ahimè, subito dopo da una dolorosa delusione. Meglio forse allora lasciare la parola a Tolkien, o meglio a uno dei suoi personaggi, il nano Thorin Scudodiquercia, che ci propone una ricetta di felicità solo apparentemente banale: “Se un maggior numero di noi stimasse cibo, allegria e canzoni al di sopra dei tesori d’oro, questo sarebbe un mondo più lieto”. (“If more of us valued food and cheer and song above hoarded gold, it would be a merrier world.”)