Ultimo bagno, primi maglioni

L’estate finisce con l’ultimo bagno? E io mi tuffo ancora…

Di Amelia Belloni Sonzogni  –  scrittrice

I tramonti di fine estate sono i più suggestivi; si accavallano i toni del giallo e del rosso, che diventa viola, e poi tende al blu che, ancora lucente, torna celeste, indeciso tra il lucore opalescente delle perle e lo scuro della sera che avanza.

La luce del blu, la sera, non è più smagliante come a giugno, quando tutto è all’inizio e scoppietta di progetti coniugati al futuro.

Non si contano, nella mia vita, i tramonti osservati dalla spiaggia di Levanto.

Fino a qualche anno fa, in riva al mare sopravvivevano negli ultimi giorni di settembre alcuni ombrelloni infilzati nella sabbia, con le sdraio lasciate lì, da usare, per gli ultimi frequentatori incalliti: quelli che, come me, appena potevano, passavano le ore più calde stesi al sole, si immergevano nel mare sempre meno tiepido e tornavano a casa “salati” perché la doccia all’aperto era davvero fredda e gli anni iniziavano ad accatastarsi, richiedendo prudenza.

È rimasto imperativo nella mia vita il puntiglio di posticipare il più possibile l’ultimo bagno. Mi pare sempre che, se si allunga il tempo dei bagni, il resto del tempo, fino al primo bagno della stagione successiva, sarà più allegro, più breve, più lieve. Resta un vanto quel 24 novembre 2013 in una baia sperduta e calda della Sardegna, anche se quell’anno e un paio dei successivi non sono stati allegri né lievi. Ma ormai sono andati.

Ad ogni modo, niente mi strugge di nostalgico rimpianto, e al tempo stesso mi conforta, come la fine dell’estate nel posto in cui ora vivo e che amo, perché è solo questo il mio mare, solo qui il bagno è bagno, solo qui nuotare è nuotare.

Se ora posso – per fortuna – navigare con il mio barchino “bordesando” lungo le calette, battezzate una dopo l’altra in sequenza, fino a Monterosso da una parte e a Framura dall’altra, tuttavia è sempre lì, davanti alla spiaggia dove ho trascorso quasi tutte le estati della mia vita, il posto in cui l’ultimo bagno ha più senso, è più bello, bagna di più, soddisfa come nessun altro.

Ancora oggi, quando la tasto, l’acqua non è mai fredda abbastanza da rinunciare: si allungano i tempi del tuffo, perché acclimatarsi richiede più pazienza, ma la nuotata è impagabile, specie quando, raggiunto il largo, mi fermo, mi guardo intorno e mi accorgo di essere sola! Gioia indicibile e anche un po’ perfida nei confronti di chi immagino in quel momento al lavoro, mentre io sguazzo senza vincoli nel tepore settembrino. E non uscirei più: sarà perché il termine “ultimo” (leggo) contiene nell’etimo il senso di un andare oltre, anzi “oltrissimo” (pare avesse, agli inizi del Trecento, un grado superlativo https://unaparolaalgiorno.it/significato/ultimo).

Andrei oltre il freddo, come una foca, se potessi; ma questo mio luogo del cuore ha come peculiarità le fresche sere d’estate, nonostante i cambiamenti climatici, e non si può andare oltre una cert’ora.

Quando ero ragazzina, sul finire di settembre, come per un tacito accordo, quasi tutte le nonne e le mamme infilavano i ferri da maglia nelle ceste di paglia con cui arrivavano in spiaggia. Spostavano le sdraio a crocchio, aprivano sacchetti tutti uguali (“il” negozio che vendeva filati era uno per tutte), sceglievano gomitoli e sferruzzavano, intrecciando punti vecchi e nuovi, chiacchiere e fili.

Tra le figlie, alcune seguivano l’esempio materno, altre si limitavano a controllare l’allungarsi della maglia, pensando a chi l’avrebbe finita per prima, per indossare ed esibire l’ultima creazione. Intanto, con un copricostume addosso e le lire contate in mano, si andava in gruppetti ad acquistare una pizza per pranzo nella gastronomia di fronte ai bagni: era più buona piegata in due e addentata, sedute sul bordo della sdraio mentre ci si inventava qualcosa per trascorrere la serata in compagnia; alla peggio, si andava al cinema e si poteva scegliere in una terna di programmazioni diverse. All’aperto, il maglione sarebbe di sicuro tornato molto utile.

Ora, tutto è scandito a segnare la fine dell’estate, con una precisione quasi fastidiosa. I bagni chiudono in quella data; gli ombrelloni sono tutti ritirati; le sdraio non esistono neppure più, sostituite dai lettini. Quindi, niente più crocchi di magliaie esperte o improvvisate o in erba. La gastronomia è sparita da tempo: al suo posto un ristorante con un menù decisamente turistico. È sempre affollato, dato che questo periodo così dolce, equilibrato e suggestivo è lasciato quasi totalmente a disposizione, se non in balia, del turismo straniero, di sicuro più intelligente del nostro nello sfruttarlo meglio.

Delle fine estati del mio tempo passato restano i ricordi più teneri e i maglioni più caldi, che ancora indosso. Saranno fuori moda, si dirà. Sì, ma che importa?

Settembre è il mese che preferisco, in cui compio gli anni, over 60, garantisco; proprio in questo mese, per il numero di settembre, il direttore mi ha invitato a collaborare. I versi che seguono sono, come è noto, di Herman Hesse. Per dire grazie a Minnie Luongo, il cui autore preferito è per l’appunto lo scrittore tedesco, premio Nobel per la letteratura nel 1946.

di Hermann Hesse (1877-1962)

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