Il sonno per me tarda di più quando non c’è rumore
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico
Di nuovo qui. Difficile dissimulare la stanchezza. Perdo pezzi di me e delle mie cose. Stasera non riesco a scaldami né a stare sulle cose che mi piacciono. Non si sente altro che folate di vento che scuotono alberi e infissi. Qui dentro nulla di nulla. Silenzio.
Ho messo la felpa, quella con il cappuccio. Anche il cuscino è freddo. Penso alle tante cose che non trovo, ai libri che non so se sono qui o a Roma, alle carte, a certi quaderni che avevo anche numerato in un eccesso di consequenzialità- ma che non ho saputo rintracciare. Ci sono anche dei documenti che vorrei poter avere sottomano. Domani questi li cerco – e così pensando e dicendomi provo a tranquillizzarmi.
Però con tutto questo silenzio, a porzioni delimitato dalle folate, fantastico e girovago – da supino. Mi si affacciano ricordi senza nesso con alcunché. Apparentemente liberi per associazioni e immagini. Se dormissi sarebbero sogni. Da sveglio invece sono sprovvisti di senso. Quando svieni perdi i sensi, ma non i significati. Non solo: lo svenimento stesso ha, con ogni probabilità, un suo significato. Ma pensare a questo ora non ha nessun nesso né con me, né con questo momento….
Ho tanti amici lontani che mi piacerebbe risentire. Di ciascuno mi torna in mente prima qualcosa, poi una valanga di ricordi. Succederà anche a loro? Se non lo chiedo non lo saprò mai. Ma neanche loro me lo chiedono… Quindi né io né loro. Distanti. Reciprocamente.
Ho sete ma fa freddo e non mi alzo. Anzi, mi calo il cappuccio sugli occhi. Al buio non ha senso. Ma anche tutto il resto sin qui detto ne è sprovvisto – luce accesa o spenta che sia.

Aspetto il sonno già da un po’, ma forse per potermi addormentare mi devo prima un po’ riposare…
Conto a ritroso da 100 a zero, cercando di visualizzare ciascun numero – uso mentalmente qualcosa di simile alla grafica vecchia dei numeri degli autobus a Roma, quelli dell’Atac.
Spero di scendere…di addormentarmi prima di dover scendere perché – “Aho! Semo arrivati dotto’, questo è er capolinea…”- più in là sembra proprio non vi sia nulla…