Riflessioni intriganti sul motivo per cui un libro già letto da qualcun altro, spesso trovato su una bancarella, ci fa pensare all’autore, a chi l’ha già sfogliato e, anche, a noi stessi
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico

Leggo con la matita. Oppure talvolta, ma solo per pigrizia (non mi va di alzarmi a cercare la matita) con la penna.
Il testo “usato”, vissuto e completato da chi lo legge, mi piace. Credo che sia la realizzazione dell’auspicio che l’autore fa scrivendo il suo libro. Spera in un lettore intento a esprimere giudizi, congetture, supposizioni magari anche lontane e impreviste dalla mente narrativa dell’autore, mentre era tutto intento a dire la sua, argomentandola per consegnarla al foglio e alla stampa. Una volta scritto –stampato- l’autore è assente rispetto al testo. Lo scrittore sta in un altro mondo, lontano, e si dà per il tramite delle parole non come atto di fiducia verso chi legge, ma come semplice abbandono, nel senso di necessario atto di separazione, liberazione, evacuazione emotiva. Si legge per il tramite di un’assenza –altrimenti lo si ascolterebbe e ci si parlerebbe.
Quando su una bancarella trovo dei libri vissuti, li preferisco agli altri. Quando li leggo, li sfoglio, li tocco, è quasi se le due evidenti e necessarie assenze – quella dell’autore, che si è affidato alla scrittura; quella del lettore, che ha segnato di sé, della sua lettura e quindi della sua interpretazione il testo, marcando il territorio delle pagine del quale, però, non è più proprietario per chissà quali casi della vita – le due necessarie assenze, unite tra loro dalla misteriosa sovrapposizione sulla cosa libro che ho in mano, mi raddoppiano il piacere: quello del testo –e del mio dialogo con l’autore- quello delle tracce del lettore che mi ha preceduto. Seguendole mi raccontano di lui e delle sue scelte, di cosa e come legge, anche perché abbiamo scelto lo stesso titolo e lo stesso scrittore. Magari, con un po’ di fantasia potrei anche approfondire e dire la mia su questo lettore, azzardare e maturare la convinzione che sia un uomo o una donna, giovane oppure no, distratto o puntiglioso, esigente o di bocca buona, se leggeva per lavoro o per studio o per semplice godimento. Forse, sarei anche in grado di dire se –conoscendoci di persona- ci risulteremmo simpatici.
Sono un lettore con la matita e talvolta anche con la penna, ma con quest’ultima solo per pigrizia.

Quando riprendo in mano un mio libro già letto –vissuto, sottolineato- da me, spesso, davvero spesso mi stupisco di come e di cosa ho sottolineato, delle cose che mi hanno colpito e dei commenti che ho scritto sui margini bianchi. In genere il libro, l’autore lo ricordo e rileggendolo lo riconosco. E’ piuttosto di me che mi stupisco, fatico a riconoscermi del tutto in quelle mie tracce di lettura. Dubito di me e di chi sono. Leggendo testo e sottolineature, le differenze emergono e mi riesce più facile capire qualcosa di me, chi sono –o almeno come sono diventato –magari allarmandomi.
Tutto si trasforma. Un libro riletto a distanza di tempo mi appare diverso rispetto allo stesso libro, alla prima lettura, perché quel testo su quelle pagine è restato sempre lo stesso, mentre tutto cambia e io con il tutto.
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