Gesti quotidiani che riportano l’autore a ricordare minuziosamente gli insegnamenti ricevuti in famiglia per non fare gradini nel pane, né scalette sul prosciutto
Di Andrea Tomasini – giornalista scientifico

Ieri sera mi sono fatto le costine di maiale al forno. Nella teglia ho anche messo delle cipolline e condito tutto con rosmarino e sale grosso. Niente olio in cottura. Mentre lascio dentro il forno la cena a cuocersi mi verso un calice di vino e mi preparo un antipasto con una fetta di pane di Montebibico -filone ricevuto in dono- su cui strofino dei pomodorini a pendola e aggiungo olio nuovo di Marfuga. Nulla di articolato ma solo di dedicato. Pane pomodoro e olio buono. Il pane lo conservo dentro la federa. E’ quello cotto a legna e fatto con lievito madre dura e va curato. Uso la prima fetta che è un po’ più dura e secca delle successive, rispetto alle quali funge da protezione di umidità e fragranza. Faccio per affettarlo e mi accorgo che i gesti che compio sono quelli che mi ha insegnato mio padre – l’apprendistato del gusto lo devo all’attenzione alla natura e al lavoro dell’uomo che a casa ho respirato, stando a tavola tutti insieme.
“Non fare i gradini” era una frase che valeva per il filone quando l’affettavo, e la variante “non fare le scalette” vigeva quando stavo imparando ad affettare il prosciutto. “Attento a come tagli il formaggio” – era l’altra e, quando era stagione, “non scavare l’anguria…”.

Fin tanto che non avessi imparato come fare correttamente mi dava indicazioni con l’intento di evitare questi errori. Una volta chiesi finalmente spiegazione di tutta questa insistenza, che mi appariva un’apprensione ingiustificata rispetto al modo con cui trattavo pane prosciutto formaggio e frutta. Ero piccolo ma erano cose che avevo l’autorizzazione a fare. D’altronde quando si apparecchiava ognuno partecipava all’allestimento della tavola e alle attività accessorie. Erano gli anni in cui nel primo cassetto della credenza stavano le salviette di stoffa, ciascuna piegata da ognuno di noi nel suo portatovagliolo – sia per ordine sia perché non si scambiassero. Il parmigiano si grattugiava al momento (compito mio), poco prima di metterlo a tavola, togliendolo dalla carta oleata in cui era avvolto, la stessa con cui il pizzicagnolo faceva il cartoccio nel quale confezionava le olive. Poca era la plastica nelle confezioni, e ancor meno diffuso era l’usa e getta – anzi, su quel “getta” gravavano percezioni e scrupoli di spreco, immaginando possibili riusi di tante materiali o contenitori che erano pensati e allestiti per un unico utilizzo. Mi ricordo che c’era anche il bicchiere preferito di ciascuno – nonno mi diceva che voleva quello stretto e lungo perché così non gli entrasse dentro il naso, per evitare di bagnarselo bevendo. Lo confesso solo ora e all’epoca non dissi nulla: per un po’ usando il mio bicchiere, del tutto normale nella foggia, un bicchiere da cucina, ricordo che feci particolare attenzione per bere senza bagnarmi il naso. Poi compresi la presa in giro e non ci ho pensato più fino a ieri sera affettando il pane.
Differentemente dal tono scherzoso di nonno – che comunque voleva davvero sempre quel bicchiere- l’attenzione a che non facessi gradini nel pane, scalette sul prosciutto e non “rovinassi” il formaggio era un punto su cui mio padre insisteva con affetto e pazienza, correggendomi e mostrandomi come fare. Tagliando la fetta, se ne avessi voluto meno non dovevo interrompere a metà, strappandola. Più semplicemente, avrei potuto realizzare una porzione di pane meno grande aumentando l’inclinazione diagonale del coltello, tagliando più dalla parte della sommità o della pancia del filone – una fetta “inclinata” che non si sarebbe interrotta a metà, lasciando il taglio piatto. Per il prosciutto era più complesso. Occorreva pensare al coltello come all’archetto che si muove sul violino – mi diceva scherzando- con movimenti rapidi fluidi ma brevi, sempre mantenendo anche la pressione della lama di piatto sul taglio, per andar dritti e non ferire il prosciutto, sempre iniziando dal suo estremo e venendo verso la zampa. Nel caso del formaggio la cosa si risolveva nell’opportuna quantità di crosta e di interno che andava tagliata per servirsene, senza far diagonali che aumentassero l’esposizione della pasta interna.

Sì, ma perché?
Intanto il rispetto per questi alimenti, che “a farli bene ci vuole tempo, sapienza e fatica, per cui nulla doveva esser sprecato”. In verità non era parsimonia, si trattava di ammirata considerazione attenta per i gesti e i tempi che avevano consentito al pane di lievitare e diventar così buono nel forno; per la pazienza usata negli almeno 18 mesi attesi che quella coscia di maiale, salata in giornate di tramontana di due inverni precedenti, e poi condita con il pepe, diventasse prosciutto; per il lavoro necessario perché il latte appena munto opportunamente scaldato e sapientemente manipolato con sale e caglio prendesse la forma del formaggio da cui mi stavo servendo, staccandone una fetta. “Quando tagli pensa a chi l’ha lavorato, a quante cose sapeva, a come le ha impiegate, al suo tempo e alla sua fatica”.
Era un momento naturalmente importante – si principiava impiegando il giusto coltello. Non era cerimoniosa solennità, ma il modo naturale di renderne grazie, anche per il fatto di esser tutti lì a gustarne insieme. Poi c’era anche la curiosità di sentirne i profumi, le consistenze e i sapori – magari trovando differenze e similitudini con gli stessi alimenti di altri anni e altri momenti, ricordandoli e discorrendone con del buon vino a sostegno di memoria e parole versato nei bicchieri (e anche del vino c’era da parlare e godere). Insomma, si prestava attenzione a quello che condividevamo e mangiavamo, ed era cosa che ne accresceva il gusto perché era consapevole, comunitario – ci connetteva alla terra e ai suoi saperi da cui derivavano quei prodotti- e affatto casuale.
Tutta questa attenzione, vissuta però senza cerimonie, come assolutamente naturale e semplice aderenza rispetto alle cose e al cibo, si riverberava anche nel modo con cui andavano tagliati pane, prosciutto, formaggio, ma non era feticismo rispetto all’alimento, che comunque se trattato bene durava di più e in miglior condizione. “Devi stare attento a come tagli pensando a chi viene dopo di te”, mi spiegò mio padre. “Se tagli male il pane, chi viene dopo di te lo trova secco. Se fai i gradini nel prosciutto, chi viene dopo di te non può fare fetta regolare e sottile e con la giusta quantità di grasso e magro, e per questo è meno buona. Se non tagli correttamente il formaggio, quando arriva l’ultimo trova solo la crosta. Non è giusto. Devi pensare a chi viene per ultimo e fare che lui abbia quello che hai avuto tu”.
Stamattina riprendendo dalla federa il filone di pane per far colazione, con il coltello in mano adotto la cura appresa, anche e forse soprattutto senza sapere chi sarà che viene dopo di me. Che buono il sapore del pane quando è tagliato per rispettare chi viene ultimo!
