Judo: uno splendido sport che mi ha insegnato moltissimo. Compreso non sottovalutare mai un avversario, sia pure un’angelica ragazzina bionda…
Di Marco Vittorio Ranzoni – giornalista

Da bambino ero magro, timido e introverso. Adesso sono timido e introverso, ma allora la mia magrezza e il fatto che mangiavo pochissimo e malvolentieri sembrava un problema per la crescita e il dottore disse che dovevo fare sport. Delle turbe dell’animo dei bambini, allora, ci si preoccupava poco.
Così iniziai a praticare atletica leggera: nella corsa mi dissero di lasciar perdere, nel salto in alto mi plafonai ben presto a un metro e venti, così il campo Cappelli perse presto un giovane atleta. Provai con la pallacanestro (chi mi conosce a questo punto ride malignamente, ma allora non si poteva sapere che cosa ne sarebbe stato del mio corpo).
Vabbè, i miei cominciavano a disperare finché un giorno pronunciai la parola magica: judo.
Strano, perché non conoscevo nessuno che lo praticasse e allora non era tanto di moda; forse avevo visto qualcosa alla televisione, era da poco disciplina olimpica (giochi di Tokyo del 1964), non mi ricordo i dettagli; i miei non sapevano bene cosa fosse, ma tant’è… Un giorno presi il tram con mia nonna Claudia e discesi i gradini della palestra Universo di via Crocefisso.
Non potevo saperlo, ma quello era un giorno particolare: era in corso uno stage per sole cinture nere. Figurati! Io facevo la lotta con i cuscini saltando sul letto della nonna Carla (l’altra nonna mi avrebbe fracassato col battipanni, se solo ci avessi provato) e quella mi sembrava un’alternativa decisamente pazzesca. Nota bene: in tutti gli anni di palestra non mi capitò mai più di vedere una simile dimostrazione di tecniche, quindi è ovvio che quel pomeriggio di novembre fu Jigoro Kano in persona a mandarmi un segnale.

Cominciò così un’avventura fantastica, sotto la paziente guida del Maestro Ubaldo Paschini, che ben presto divenne il mio faro e il mio mito.
Iniziai a divertirmi. Poi si faceva un sacco di ginnastica e qualche muscoletto saltò fuori. Dopo qualche mese e il primo esame misi la cintura gialla e si cominciò a fare sul serio.
Il metodo di Paschini era di far partecipare subito gli allievi alle garette organizzate tra le palestre milanesi, secondo il suo motto: “Nelle gare non si perde mai, si vince o si impara”. Ero diventato un po’ più alto, però pesavo sempre pochissimo, il che era un vantaggio, per alcune tecniche che stavo imparando. Dopo qualche gara della domenica venne organizzato un quadrangolare. Erano incontri molto amichevoli e alla buona e a volte, nella stessa categoria di peso, eravamo in pochi e poteva succedere di misurarsi con una ragazza. E infatti nel sorteggio mi capitò una ragazzina bionda, molto carina, con la cintura bianca. Timido ed educato com’ero restai lì rigido per farle fare la prima mossa. Ricordo solo di avere visto i miei piedi vicino al soffitto e poi lei che si rassettava il judogi e il mio maestro che rideva sotto i baffi. La ragazza si cinse della sua cintura marrone: aveva da poco vinto i campionati provinciali e lo scherzo della cintura era stata un’idea del mio maestro, che così ebbe l’occasione per dirmi: “Mai sottovalutare un avversario”. Mi piaceva un sacco, il judo.
Col tempo superai gli esami per il grado superiore e cambiai i colori della cintura: arancione, verde, blu.

Una sera di normale allenamento il maestro mi chiamò a sé per un randori: lui pesava almeno 95 chili, ma si lasciò proiettare diverse volte lasciandomi eseguire tutte le tecniche che preferivo, prima di impartirmi la lezione: pronunciava a voce alta il nome della tecnica che avrebbe applicato, per darmi modo di evitarla, poi partiva veloce come un cobra e mi faceva volare da tutte le parti. Gli altri si erano fermati tutti a guardare quella specie di straccio bianco che roteava senza peso per tutta la palestrae ricadeva fragorosamente. Alla fine, dopo il saluto, prese qualcosa da una borsa e me la porse senza dire nulla: era la cintura marrone.

Poi, fuori dallo spogliatoio, mi chiese se mi sarebbe piaciuto entrare nella squadra agonistica. Per me era un sogno che si realizzava, ero felicissimo. “Però”, disse, “non qui, nella mia palestra di Sesto San Giovanni”. Sapevo che Paschini aveva fondato un club a Sesto, del quale si dicevano meraviglie e che mieteva medaglie. Dissi subito di sì senza pensare alle difficoltà logistiche e, avuto il permesso genitoriale, iniziai a frequentare anche là: due sere a settimana a Milano alla Universo, e due sere a Sesto. Spesso, prima delle gare della domenica, allenamento anche al sabato.
La prima volta allo Sport Club Sesto me la ricorderò per sempre. A Milano tutti fighetti: palestra del centro, con le mamme che accompagnavano i bambini “a fare judo” nella tenuta sempre immacolata, candida e stirata e restavano a guardarli nascondendo i fremiti quando cadevano. A Sesto non era così. Mai vista una mamma: a Sesto, secondo me se le erano mangiate.
Appena entrato mi sembrò una specie di girone dell’inferno: si stava allenando la squadra agonistica e mi sembravano tutti teppisti scappati di galera, la materassina beige con macchioline di sangue e i judogi che non vedevano la lavatrice da anni.
Mi guardarono con aria di compatimento; io ero talmente leccato che mia nonna mi aveva pure fatto la riga sui pantaloni candidi del judogi, che vergogna… Il maestro mi presentò i compagni e subito iniziai l’allenamento con quelli più o meno del mio peso. Un altro pianeta e un altro livello. Brutti, sporchi e cattivi. Quello sì che era judo vero.
Ben presto capii che pur nel suo rigore di arte marziale il judo può avere due anime, quella classica e quella moderna, sportiva. Infatti lì a Sesto il motto del maestro Paschini – che nel frattempo si era inventato dal niente il trofeo Abramo Oldrini per cinture nere, diventato ben presto uno dei tornei più prestigiosi a livello mondiale – era declinato in un più prosaico “L’importante non è partecipare, ma vincere”. Diavolo d’un uomo.
La faccio breve per non fare il sentimentale: da lì in poco tempo mi feci degli amici veri, scoprii ben presto che i judogi erano sporchi perché quasi tutti, figli di operai, ne avevano uno solo (io ne avevo tre) e imparai che sudandoci dentro una settimana diventavano molto più morbidi e confortevoli. Di lì a breve mi uniformai allo stile, imparai tantissimo e mi divertii un mondo. Prendevo il tram e la metro fino al capolinea di Marelli e tornavo a casa alle undici di sera; quando andavo alla palestra di via Crocefisso (col judogi macchiato di coreografiche macchioline di sangue) mi guardavano come se fossi un teppista scappato di galera. Specie le mamme.

Così passarono gli anni, io ero nella categoria fino a 57 chilogrammi anche se facevo un po’ fatica a restarci e prima del rito della pesatura facevo parecchi giri di corsa con addosso felpe e maglioni per arrivare alla bilancia trattenendo il fiato. Disputai tante gare, non ero un fuoriclasse ma me la cavavo e portai qualche coppa agli scaffali dello Sport Club Sesto.
Ma era un impegno gravoso e ben presto mi trovai intrappolato tra i primi esami all’Università, la fidanzata e gli allenamenti, e così smisi del tutto. Gli esami da cintura nera si facevano a Roma, allora, ma bisognava dedicarci parecchio tempo per studiare bene i kata, e quindi mi tenni la vecchia marrone, ormai scolorita e sfilacciata.
L’ultima volta che sono salito su una materassina però l’ho fatto alla grande: per una riunione aziendale invitammo come testimonial dei valori dello sport Pino Maddaloni, allora freschissimo oro alle Olimpiadi di Sydney, e i tre fratelli Vismara, vere icone della storia del judo italiano. Così, su un tatami approntato per l’occasione, mi sono fatto strapazzare per qualche minuto da brivido dopo aver rimesso il vecchio judogi. Pulito e stirato per l’occasione, ci mancherebbe.
- Prof. Jigoro Kano (1860–1938): fondatore del judo
- Judogi: abbigliamento del judoka
- Randori: esercizio libero di messa in pratica delle tecniche
- Kata: schemi prestabiliti di attacco e difesa
- Tatami: materassina sulla quale si pratica il judo
Buongiorno, leggo solo ora i suoi ricordi, vicini alla realtà. Allora i tempi erano più o meno così, ben diversi poi dopo. Tengo a precisare che l allievo, che allievo è stato, è nostro figlio Valis Paschini
La ringrazio per il pensiero Rivolto a Ubaldo, mio marito., quest’anno corrono i 10 anni del suo commiatto.
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Gent. Signora Concetta, scusi se le rispondiamo solo ora. Grazie mille della sua mail da parte mia e di
Marco Ranzoni, l’autore dell’articolo. Continui a seguirci… Cari saluti, Minnie Luongo (direttore Generazione Over 60)
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